mercoledì 25 gennaio 2012
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Organizzatori e simpatizzanti parlano di un successo che va oltre le cifre (100mila partecipanti) peraltro difficilmente verificabili anche negli Stati Uniti della precisione hi-tech. Per il variegato movimento pro-life americano portare in piazza decine di migliaia di persone da tutto il Paese per un happening religioso e politico, com’è accaduto per il trentanovesimo anno lunedì a Washington, è il segnale di un radicamento popolare che oltrepassa il calibro della manifestazione folkloristica di una minoranza, per quanto motivata. L’America non si meraviglia, né si azzarda a sogghignare altezzosamente mentre guarda un pezzo significativo e motivato di se stessa marciare per le strade della capitale, fin sotto il Parlamento, nell’anniversario della sentenza con la quale la Corte Suprema federale di fatto legalizzò l’aborto. Che si sfili pacificamente sotto un bosco di cartelli e striscioni assai espliciti per ricordare al Paese che nel grembo di una donna palpita una vita, una persona umana, un individuo con diritti uguali a quelli di tutti i cittadini, è un dato che non urta quasi nessuno, non suscita polemiche roventi, anzi, semmai conforta gli americani nella stima della propria libertà. Come se nella coscienza diffusa del Paese fosse chiaro che ogni rivendicazione sulla tutela del nascituro fa parte del profilo di un grande Paese e non è il patrimonio di una "parte" cui appiccicare un’etichetta sbrigativa e polemica. Dal Michigan alla California, la battaglia per difendere la vita gode di un rispetto e di una capacità di attrazione analoghi alla dimensione pubblica della religione. Di Dio e della vita si parla senza falsi pudori, con franchezza e persino con toni spigolosi, alla larga da pretese proprietarie che tradirebbero la consapevolezza di attingere tutti allo stesso serbatoio etico, pur nel rispetto di scelte differenti. L’America ama le grandi battaglie di valori, giocate senza reticenze, a carte scoperte, da cittadini informati, coscienti e convinti. E apprezza i politici che non si nascondono su un punto al quale è attribuito il valore che merita. La vita umana è una pietra d’inciampo, negli Stati Uniti come da noi, ma la campagna per le primarie repubblicane in pieno svolgimento sta fornendo la dimostrazione lampante che sullo statuto dell’embrione e sui diritti (a nascere o ad abortire) non sono contemplate astuzie semantiche né atteggiamenti elusivi: si deve parlar chiaro, perché è anche sulla posizione assunta al riguardo che gli elettori faranno la loro scelta, e non solo sul programma relativo alle tasse o all’economia. Lo stesso Barack Obama, entrando consapevolmente in rotta di collisione con l’elettorato pro-life e la Chiesa cattolica, mostra di considerare il tema della vita importante quanto altri dossier chiave sui quali ha il dovere di pronunciarsi senza ambiguità per rimanere alla Casa Bianca. Il dissenso è contemplato e atteso, in un confronto di culture che è garanzia di libertà e di consapevolezza per i cittadini.La grande marcia di Washington ha fornito lo spettacolo di un raduno popolare assai più imponente di quelli mandati in scena dagli "indignados" d’oltreoceano, a Wall Street e altrove, capaci forse di un appeal mediatico superiore ma certamente non in grado quanto il popolo per la vita di dar voce all’alfabeto condiviso di una civiltà. L’America si guarda allo specchio della vita, e stima se stessa matura a sufficienza per confrontarsi con passione sul destino dell’uomo nell’era della tecnoscienza e dell’individualismo tradotto in diritti tutti da dimostrare. È la lezione di una comunità che non teme di dividersi quando ne vale la pena, che non nasconde una questione nevralgica sotto il tappeto delle ambiguità, perché sa che è anche lì che si decide il proprio futuro. Attorno alle grandi questioni sulla vita umana – dalle staminali al suicidio assistito – si gioca l’etica su cui farà perno il Paese di domani. Un utile promemoria anche per le omissioni e le timidezze di casa nostra.
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