martedì 3 settembre 2013
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La Siria è ora l’immagine di una condizione-limite, che si ripete implacabilmente. È l’immagine di un conflitto fratricida (la maggior parte dei conflitti odierni lo sono, ormai, dovunque), che ha oltrepassato tutti i limiti. Le potenze mondiali mandano messaggi che risuonano di sdegno morale, ma noi siamo costretti a spiare i loro interessi prevalenti, per capire quello che succederà. Si ripeterà anche il resto della sequenza? Un supplemento di guerra per frenare quella che è in corso? Un potenziamento dei soccorsi necessari alle preponderanti vittime delle modeste fazioni in lotta? Oppure, troveremo un soprassalto di dignità politica transnazionale – questa sì, morale! – per immaginare una posizione diversa, tra quella dello spettatore del "naufragio" altrui e quella dello "scommettitore" sui vantaggi propri? Le piccole crepe di impreviste incertezze degli arbitri, e un senso di corale strematezza dei popoli, lasciano pensare qualche varco per l’invenzione di nuove strade. Da non spegnere dentro la nostra rassegnazione all’impotenza. Anzi.Quando il Papa dice di volersi fare interprete «del grido che sale da ogni parte della terra, da ogni popolo, dal cuore di ognuno, dall’unica grande famiglia che è l’umanità», il suono delle parole porta un’armonica diversa, ora. Nonostante gli inevitabili effetti di regìa che continuano ad avvolgere la dosata accensione dei riflettori e l’accorta selezione delle immagini, noi tutti incominciamo a percepire una corposa sostanza in questa formula. La nostra mente trattiene con più forza l’impressione delle immagini di uomini e donne – le donne, soprattutto! – che rispecchiano la loro profonda estraneità ai giochi di guerra che hanno sostituito il confronto politico. Il loro sguardo e le loro parole ci appaiono persino meno lacrimosi e smarriti: pur nello struggimento e nell’avvilimento della perdita, ci appaiono più determinati, più risoluti, più concordemente uniti nel disprezzo di questa irresponsabile facilità della chiamata alle armi per la risoluzione dei diritti e delle contese. È come se fra i popoli del mondo, a cominciare da quelli più avviliti e martoriati, si stesse creando un soprassalto di consapevolezza condivisa: si tratti del pretesto di una lotta per la libertà e il benessere, si tratti dell’onore della nazione o della religione, la pulsionalità del ricorso alle armi è pregiudizialmente sospetta. E il carattere indiscriminatamente distruttivo – fraterno, appunto – dell’odio che esso genera non onora nessun principio e nessuna promessa: né religiosa, né umanistica, né democratica, né civile.L’evidenza nuova è questa: siamo milioni e milioni di uomini e donne e bambini, in tutti i Paesi e in tutte le religioni, che non sopportiamo più questa falsa rappresentazione della realtà. Noi siamo milioni di milioni, che non vogliono affatto un benessere che abbia questo prezzo. Non crediamo più a quello che gli intellettuali cocchieri cercano di spiegarci: che il senso della vita è competizione e l’accumulo della ricchezza il suo mezzo. Ci è perfettamente chiaro che la piega del mondo globale immaginato da questo schema ha già enormemente accresciuto il solco fra accessi privilegiati dei pochi e arretramento forzato dei molti. E in mezzo, i signori della guerra, autoeletti nostri rappresentanti, e incuranti di noi, che si sparano sulle strade e fra le case che noi abitiamo.Il segno del digiuno e della preghiera ha motivo di essere bello forte, questa volta. Il mondo si fermi un minuto, tutto insieme, all’inizio di questo segno, dovunque siamo. Il digiuno scavi un vuoto che lascia un segno indelebile nella nostra anima: noi occidentali, per primi, di qualunque nazione o religione, non vogliamo più un benessere e una crescita che hanno questo prezzo. E la preghiera giuri di volersi convertire a una religione finalmente pura e senza macchia. Noi non sopportiamo più che la religione venga associata alle guerre di civiltà: né come carnefice, né come vittima. Esiste un giudizio di Dio, che dà vigore a questo giudizio della storia, del quale noi ci facciamo interpreti. Il cristianesimo è stato condotto, per pura grazia, a separarsi irrevocabilmente dagli dèi della guerra. Ora deve umilmente e fermamente sbarrare la strada, in se stesso prima di tutto, agli dèi dell’ingordigia, che sono i fiancheggiatori di ogni economia predatoria e di ogni tirannia politica. Sostenuto dalla propria fede, il suo primo testimone chiama a raccolta un popolo immenso. E lo invita a prendere distanza dalle false divinità dei sacrifici umani. Dovunque.
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