sabato 10 maggio 2014
Come si fa a trasformare un ragazzo ferito in un uomo responsabile?
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Come si fa a trasformare un ragazzo ferito in un uomo responsabile? Serve un maestro capace di scendere nella sua notte, direbbe papa Francesco. Questa intuizione, presente nel discorso che il pontefice pronunciò il 22 settembre 2013 a Cagliari, alla Pontificia Facoltà di Teologia della Sardegna, non smette di emozionarmi, anche perché apre dentro di me una serie di proficue risonanze.In un grande romanzo di Don DeLillo, Underworld, padre Paulus, gesuita di non trascurabile levatura, suggeriva a Nick, traumatizzato da un omicidio involontario, di imparare innanzitutto i nomi che designavano le parti dei suoi stivali. Il giovane non sapeva andare oltre stringhe, suole e tacco. L’educatore lo incalzava deciso: linguetta, risvolto, rinforzo. E poi? Dorso, guardone, tomaia. E ancora? Occhielli, aghetto, anellino. Cosa aveva a che fare tutto ciò con il diventare adulti? Era una questione di volontà e perseveranza.

Il linguaggio non è soltanto un mezzo per comunicare ma, assai più centralmente, la casa del pensiero. Giovanni Bosco e Lorenzo Milani, fra gli altri, sarebbero stati d’accordo. Ritrovare la forza per superare la crisi diventa quindi un imperativo categorico. San Francesco scendeva da cavallo per baciare i malati che tutti evitavano. Chi sono i lebbrosi spirituali di oggi? Non dobbiamo cercarli chissà dove. Basta scrutare laggiù, fra gli ultimi banchi dell’aula. Oppure sugli spalti degli stadi. O ancora in certi locali il sabato sera. Troppo facile sarebbe lasciarli andare al loro destino. Scrollarseli via di dosso quasi fossero sterpaglia. Papa Francesco ci dice il contrario: «Serve una Chiesa capace di incontrarli nella loro strada». Il che significa mettersi in gioco, sporcarsi le mani, prendersi in carico lo sguardo altrui, assorbire l’odore delle pecore. Per comprendere la potenza di questa esortazione dovremmo tornare sulla strada di Emmaus. Niente ci verrà sottratto se abbasseremo la guardia sfilando la maschera dal viso.Chi, se non il maestro, dovrebbe essere capace di rinnovare la dimensione verbale dell’incontro con l’altro? Ecco perché parlare di scuola significa ripensare al fondamento etico del rapporto sociale. In una sintesi fatta a braccio dal pontefice il 7 giugno 2013 agli studenti leggiamo: «Nell’educare c’è un equilibrio da tenere, bilanciare bene i passi: un passo fermo sulla cornice della sicurezza, ma l’altro andando nella zona a rischio. E quando quel rischio diventa sicurezza, l’altro passo cerca un’altra zona di rischio. Non si può educare soltanto in una zona di sicurezza: no. Questo è impedire che le persone crescano. Ma neppure si può educare soltanto nella zona di rischio: questo è troppo pericoloso. Questo bilanciamento dei passi, ricordatelo bene».È una riflessione che andrebbe posta al centro di tutti i corsi di formazione pedagogica. Se l’insegnante resta chiuso nel suo ruolo, limitandosi a svolgere il programma e mettere i voti, non assolve pienamente al proprio compito. Se però si staccasse dalla sua posizione dimenticando i limiti che deve incarnare, potrebbe perdere lui stesso la strada del ritorno. Bisogna quindi essere amici e maestri, allo stesso tempo: condividere gli entusiasmi e le malinconie dei ragazzi, la rabbia e le passioni della loro età, restando tuttavia sempre sul posto, come adulti credibili che hanno fatto una scelta. Non a caso Michel De Certeau, sulle cui opere papa Francesco ha ben riflettuto, definiva l’educatore «l’uomo del faccia a faccia».

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