venerdì 9 dicembre 2011
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Sotto la statua della Madonna di piazza di Spagna come ogni anno il Papa e una gran folla di romani, nel giorno dell’Immacolata. Benedetto XVI ha indicato in quell’antica effige mariana coronata di stelle uno dei volti della «donna vestita di sole» dell’Apocalisse. Uno dei volti, giacché la stessa immagine dell’Apocalisse adombra contemporaneamente la Chiesa, «che porta nel suo seno Cristo, e lo deve partorire al mondo». E che viene e verrà attaccata ancora dal drago, ma non ne sarà annientata.Non praevalebunt, è il senso della parola ripetuta ancora una volta in piazza di Spagna. C’è una sola cosa che la Chiesa deve temere, ha aggiunto con la sua voce mite Benedetto, ed è il peccato dei suoi. Cioè dei cristiani, cioè il nostro. Siamo come pellegrini in un deserto, ma il vero nemico non sta in banditi e predoni, bensì nel fondo di noi. E come suona straniero questo avvertimento in un tempo di crisi, d’impoverimento e dunque di rabbia, in cui ognuno punta il dito verso l’altro, più furbo, più ricco o più impunito – in ogni caso, "più colpevole" di noi. Come suona impopolare oggi dire: il male alberga dentro ai nostri cuori. Contro al vantarsi di coscienze immacolate, allo sventolare di mani che si giurano candide, alla certezza di chi si sente «a posto», la consapevolezza di miseria che il Vangelo insegna: il male abita in ciascuno di noi.Ma allora, riconoscendoci addosso questa ineludibile ombra, come si fa a non disperare? Misericordia, è la parola e diremmo la dimensione cristiana che da sempre soccorre la povertà e l’impotenza dei credenti; misericordia, che nella sua radice ebraica allude a quell’amare «con viscere materne» di Dio; come di madri, che ritornano sempre a perdonare. (Anche questa una categoria quasi cancellata dal pensiero corrente; straniera nelle parole che scambiamo fra noi, in cui tutti sembriamo giusti, e giudici).Eppure proprio nella coscienza del peccato e del bisogno di misericordia nasce la domanda che anche ieri il Papa ha rivolto alla Madonna innalzata sul cuore di Roma: che incoraggi la fede, ha pregato, che dia sostegno alla nostra speranza. «Ne abbiamo bisogno – ha aggiunto – soprattutto in questo momento così difficile per l’Italia, per l’Europa, per varie parti del mondo». Già, c’è un bisogno grande, di speranza, oggi, anche nel Primo Mondo, il ricco, il privilegiato, dove la fame è un oscuro lontano ricordo. Dove però da autorevoli voci si ascoltano con incredulità parole che lasciano immaginare implosioni non impossibili nella stabile terra dell’Europa unita, senza frontiere e con una stessa moneta.Speranza, ce ne fosse in vendita andrebbe a ruba, da Bruxelles a Parigi a Madrid. Speranza che qualcuno guardi a queste nostre città gonfie di affanni e solitudine, e ora di un po’ di paura, con misericordia, cioè con una giustizia più grande, che ricrei e non annienti. Certo, una speranza così è possibile a chi si riconosca figlio, creatura, e non autosufficiente assoluto padrone di sé. Perché altrimenti a nessuno si può chiedere speranza, se non a se stessi; vanamente, come quel barone di Munchausen, che cercava di sollevarsi dal fango tirandosi per i capelli con le sue stesse mani.Speranza per l’Europa, per l’Italia, ha domandato il Papa, ben sapendo come si atterrisce il cuore degli uomini all’idea che lavoro manchi, o quando si teme per il futuro dei figli. «Maria – ha detto – ci aiuti a vedere che c’è una luce al di là della coltre di nebbia che sembra avvolgere la realtà». E questa ultima frase anche i più semplici in piazza di Spagna l’hanno capita, e portata con sé a casa. Stretta in mano come si stringe un filo sottile eppure forte; che lega agli altri, per cui già si è meno soli; e insieme a un Dio vicino e fedele.
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