mercoledì 20 gennaio 2016
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Con il braccio di ferro sulle banche e l’aspra polemica tra Matteo Renzi e Jean Claude Juncker il rapporto tra Italia e Ue è arrivato a un decisivo momento della verità. Il premier ha deciso di alzare la voce. E fa bene. Evidentemente non ha la soluzione in tasca, il premier, e ha capito che è meglio un conflitto esplicito e aspro, con tutti i rischi del caso, piuttosto che qualche mese di quieto vivere, il rischio di collasso del Paese e la crescita impetuosa dei partiti euroscettici o decisiamente anti-europei. E di questo rischio dovrebbe essere consapevole anche il presidente Juncker che, invece, pare scherzare col fuoco.Ripercorriamo le tappe della vicenda. Subito dopo la drammatica crisi finanziaria globale del 2007 causata dal trading speculativo sui derivati del credito di banche massimizzatrici di profitto (la Lehman non era certo una popolare) gli istituti bancari tedeschi si trovano nei guai per le loro pesanti esposizioni. Gli aiuti di Stato (238 miliardi) arrivano copiosi. Le banche italiane, meno esposte nella finanza speculativa, reggono il colpo. Dopo la crisi gli Stati Uniti ripartono subito con una combinazione di quantitative easing (acquisto di titoli del debito pubblico), politica fiscale espansiva e piano di riacquisto pubblico-privato dei titoli tossici a prezzi stracciati. L’Unione Europea non fa nulla di tutto questo e, paralizzata dalla sfiducia reciproca tra Stati membri, impone come "prova di fedeltà e di affidabilità" il pesantissimo vincolo fiscale del Fiscal Compact. Seguono sette anni di vacche magre dopo i quali si corregge in parte l’errore, lasciando che il presidente della Bce Mario Draghi avvii il quantitative easing europeo e allentando nei fatti (ma non nei princìpi) i vincoli fiscali. Le banche italiane che avevano ben superato il momento più drammatico della crisi finanziaria globale pagano duramente i sette anni successivi di crisi dell’economia reale e vedono crescere progressivamente la quota dei crediti incagliati e in sofferenza. La Spagna segue dinamiche simili, ma fa in tempo nel 2012 a varare una "bad bank" che, con il supporto generoso di risorse pubbliche (45% del capitale), ripulisce le banche del Paese iberico dalle passività. Poi la porta si chiude e l’Europa, per il timore che le crisi bancarie si trasformino in crisi di debito pubblico, diventa severissima in materia di salvataggi bancari con risorse pubbliche. Dall’era del bail-in in poi, avviata con il 2016, sono gli azionisti, gli obbligazionisti e i correntisti per la quota di deposito eccedente i 100.000 euro a dover pagare il conto in caso di fallimento. Ma non basta. Nel frattempo gli accantonamenti per i crediti in sofferenza sono diventati più severi e, dulcis in fundo, entra in pista il progetto di elevare il profilo di rischio dei titoli di Stato detenuti dalle banche. In palese dissonanza con la riduzione dei premi di rischio successiva al varo del quantitative easing.La consecutio temporum di aiuti leciti a Germania e Spagna, cambio delle regole, aiuti proibiti all’Italia non ha alcun senso. Le difficoltà di oggi del nostro sistema bancario, come abbiamo appena ricordato, sono infatti figlie del combinato disposto della crisi del 2007 e dell’inettitudine delle politiche comunitarie che sono seguite. Per questo l’Italia ha diritto a un bonus e può e deve chiedere oggi i benefici già goduti da Germania e Spagna perché si tratta di benefici volti a risolvere lo stesso problema manifestatosi solo a distanza di tempo. In concreto quei benefici oggi significano abbandono del progetto di aumento del profilo di rischio dei titoli pubblici in pancia alle banche e il varo di una "bad bank" con sostanziose garanzie pubbliche. Aiuti di Stato? Sì, in parte. Proprio gli stessi goduti da Germania e Spagna. E che oggi il nostro sistema bancario, capace di resistere più a lungo alla crisi, merita.
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