mercoledì 19 ottobre 2011
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Di notevolissima onestà intellettuale la sentenza della Corte europea di giustizia di martedì 18 ottobre. Il quesito rivolto alla Corte era di natura palesemente tecnico-giuridica: come interpretare l’articolo 6, n. 2, lettera c della Direttiva del Parlamento europeo (risalente al 1998) che esclude dalla brevettabilità «le utilizzazioni di embrioni umani a fini industriali e commerciali»? Cosa propriamente si deve intendere per «embrione umano»? Rientrano nella categoria dei «fini industriali e commerciali» anche le utilizzazioni degli embrioni finalizzate alla ricerca scientifica? È possibile brevettare produzioni che presuppongano comunque, in una fase anteriore di manipolazione cellulare, la distruzione di embrioni? Questioni, queste, di palese e immenso rilievo bioetico. Ma la Corte non si è voluta qualificare se non per quello che è: un organo che non è chiamato a dirimere controversie di natura medica o etica (in poche parole, la Corte ha sottolineato di non voler essere assimilata a un Comitato di bioetica), ma che deve limitarsi a dare un’interpretazione strettamente giuridica delle Direttive europee in vigore.E questo è quello che la Corte ha fatto, ricordando che il diritto dei brevetti in generale (cui va riferito il divieto di brevetto previsto dal già citato articolo 6) si fonda sul principio generale del doveroso rispetto della dignità della persona e dell’integrità del corpo umano. La Corte ha, in buona sostanza, smentito, nei fatti, tutti coloro che ripetono da anni, con monotonia, che qualsiasi riferimento normativo alla dignità umana avrebbe una valenza vuotamente retorica. Al contrario, proprio richiamandosi a questo principio, la Corte ha stabilito che per tutelare a tutto tondo la dignità umana, la nozione di embrione umano va interpretata nel senso più ampio possibile. È embrione non solo l’ovocita fecondato (e fin dal momento della fecondazione), ma qualunque ovocita che a seguito di qualsivoglia manipolazione abbia la potenzialità di svilupparsi e di dar vita a un individuo umano. Conseguenza coerente di quest’affermazione è la conferma dell’esclusione dalla brevettabilità di qualunque "invenzione" su materiale cellulare che presupponga la distruzione di embrioni umani e questo non solo nel caso che il brevetto risponda a meri interessi commerciali dell’"inventore", ma anche quando esso venga richiesto da scienziati nel contesto di ricerche scientifiche. La Corte ribadisce così un principio fondamentale della biogiuridica e cioè che il rispetto della persona umana, fin dalle prime fasi sul suo sviluppo, ha un primato sui meri interessi della scienza e della ricerca, per quanto apprezzabilissimi.Nessun bioeticista deve essere così ingenuo da ritenere che una sentenza possa avvalorare definitivamente la vita umana (come in questo caso) o toglierle definitivamente valore (come è pur successo – ahimé – in altri casi). Un sentenza come questa costituisce però un ottimo esempio di ciò che Papa Benedetto, nel recente discorso al Reichstag di Berlino, ha qualificato come «ecologia umana»: una difesa dell’uomo fondata non su assunzioni ideologiche e politiche, ma su una seria e onesta riflessione su dati antropologici incontrovertibili. I giudici europei hanno preso atto che con l’ espressione «embrione umano» la Direttiva europea sui brevetti voleva alludere alla prima e radicale fase dell’identità dell’uomo e con un colpo solo hanno spazzato via i tanti sofismi che si sono accumulati in questi anni sull’embrione, per negargli dignità e tutela (ricordate: si è parlato di «ovocita fecondato», di «pre-embrione», di «ootide», ecc.ecc.). La vita umana inizia con la fecondazione, questo è un dato di cui il diritto deve prendere atto. Di conseguenza è dal momento della fecondazione che si attiva il dovere di tutelare la vita umana e la sua dignità.La Corte si dimostra così consapevole di questa verità basilare, che dopo aver ribadito che le finalità di ricerca scientifica non giustificano di per sé nessun brevetto, ammette con piena coerenza il diritto di brevettare invenzioni terapeutiche e diagnostiche purché siano utili all’embrione stesso (notevole la consonanza col dettato dell’articolo 13.2 della legge italiana sulla procreazione assistita). E, per restare nei suoi limiti di Corte di giustizia (e non di bioetica), rimanda alle legislazioni nazionali una valutazione che essa ritiene allo stato attuale giuridicamente indecidibile, come quella se possa ritenersi embrione o no una cellula staminale prelevata da un embrione allo stadio di blastocisti (a condizione, evidentemente, che tale prelievo non uccida l’embrione da cui la cellula staminale è prelevata). Una simile sentenza non ha certo un carattere rivoluzionario, anzi conferma verità acquisite da tempo dai migliori bioeticisti. Essa però ci aiuta a riconciliarci con il diritto: e di questa riconciliazione mai come oggi sentiamo così fortemente il bisogno.
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