giovedì 12 gennaio 2012
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Mustafa Ahmadi Roshani, uno degli scienziati iraniani assegnati al sito di arricchimento dell’uranio di Natanz, è saltato in aria ieri, di prima mattina, men­tre andava al lavoro. Lo ha ucciso una bomba magnetica, applicata alla sua au­to da una moto in corsa. La stessa tecni­ca usata il 20 novembre 2010 per attenta­re alla vita di Majid Shahriari, docente presso l’Università di Teheran e studioso delle reazioni a catena, e di Fereydoun Ab­basi, direttore dell’Agenzia iraniana per l’Energia Atomica. Shahriari morì sul col­po, Abbasi se la cavò con ferite di poco conto. Sempre nel 2010, in luglio, ma a colpi di pistola, era stato intanto ucciso (di nuovo da un motociclista) Daryoush Rezai, un fisico. Mentre Massoud Alì Mohammadi, fisico delle particelle ele­mentari, era stato eliminato in gennaio con una bomba comandata a distanza. Basta la cronaca a far capire che il brac­cio di ferro con l’Iran sulla questione nu­cleare è ormai da tempo entrato in una fase che supera le dichiarazioni retoriche e le minacce da tribuna. Viene attuata, passo dopo passo, una strategia di 'omi­cidi mirati' che ricorda vecchie stagioni dello spionaggio internazionale e non è priva di punti crudelmente oscuri. Scien­ziato nucleare, persino in Iran, non equi­vale a 'costruttore di bombe'. Secondo fonti di non disprezzabile affidabilità, per esempio, sia Shahriari sia Mohammadi e­rano dei teorici, studiosi universitari non collegati all’Agenzia iraniana per l’Ener­gia Atomica che coordina e dirige i lavori delle centrali. E poi ci sono le vittime di si­curo innocenti: con Roshani, ieri, è mor­to un autista, con Abbasi rimase grave­mente ferita anche la moglie. Queste morti violente, che ieri hanno su­scitato proteste soprattutto da parte rus­sa, ci dicono tante altre cose. Per esempio che l’Iran è permeabile a uno spionaggio straniero che, con ogni evidenza, può con­tare su appoggi e complicità interne al Paese. Segno che le proteste politiche pos­sono anche essere soffocate con la vio­lenza, ma lo scontento resiste e da qual­che parte, in qualche modo, si trasforma in azione. Ma la scelta accurata delle vittime, e il tentativo di seminare il panico in una comunità scientifica ristretta, dimo­strano anche quanto sia dif­ficile, per i Paesi più esposti (Usa, Israele, Gran Bretagna), mettere in opera un’efficace strategia di contrasto alla po­litica degli ayatollah. L’em­bargo, come si è visto, è diffi­cile da applicare, di dubbia u­tilità e, per le economie che più dipendono dal petrolio altrui, anche iraniano, assai costoso. Sulle 'opzioni mili­tari', da anni agitate come minaccia fi­nale, pesa il fresco ricordo della campa­gna in Iraq, con la consapevolezza che la reazione iraniana sarebbe assai più pe­sante, soprattutto per i Paesi del Golfo fe­deli alleati degli Usa e decisivi per il mer­cato petrolifero. Da non trascurare, infine, l’oggettiva dif­ficoltà a decifrare i processi politici del re­gime di Teheran. È chiaro che il tema nu­cleare, e quindi quello delle relazioni con l’Occidente, è usato nei rapporti di forza interni. Ma chi prevale? E a qual fine? Co­struire la bomba, ben sapendo che gli U­sa non lo permetteranno mai a un regime che minaccia di distruggere Israele e che, con l’arma nucleare, diventerebbe il con­trollore delle vie mediorientali del petro­lio? Le continue provocazioni (blocche­remo lo stretto di Hormuz, costruiremo un nuovo impianto per arricchire l’ura­nio, queste le ultime) aumentano la con­fusione: anche Saddam Hussein provò fi­no all’ultimo a far leva su armi letali che non possedeva. Per tutte queste ragioni è probabile che la decimazione degli scienziati continui. E che la mancata reazione dell’Iran, nel frat­tempo, riveli le debolezze che il regime cerca di nascondere alzando la voce.
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