sabato 7 luglio 2012
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Un euro in più il costo del pieno dal ben­zinaio, un altro euro e mezzo la spesa al supermercato e 10 centesimi in più la cola­zione al bar. Forse per comprendere in ma­niera più immediata l’effetto pratico della “revisione della spesa”, occorre pensare an­zitutto a ciò che il decreto del governo scon­giura (almeno per un anno). L’aumento di 2 punti dell’Iva, infatti, peserebbe in maniera diretta e sensibile sui portafogli dei cittadini. Sui nostri bilanci familiari, che già hanno per­so in un anno il 2% di potere d’acquisto. Tagliare le spese dell’amministrazione pub­blica, dunque, non è solo necessario per la congiuntura economica difficilissima che ci troviamo ad affrontare. Ma risulta al tempo stesso conveniente per i cittadini e funzio­nale all’imprescindibile riforma strutturale del nostro sistema economico. Che non può più reggersi su una spesa dello Stato in cre­scita esponenziale, giunta ormai a pesare per la metà del valore complessivo del nostro Prodotto interno lordo. Una spesa solo in par­te destinata a costituire i pilastri dei servizi pubblici e del welfare e che, invece, finisce in grande percentuale per disperdersi in mille, anzi milioni di rivoli, non tutti trasparenti, quasi sempre improduttivi.Una spesa fi­nanziata attraverso un sempre più elevato ri­corso al debito pubblico. Di fatto colpevol­mente scaricata sulle spalle delle generazio­ni a venire. Il valore del decreto approvato giovedì not­te, allora, va ben al di là dei pur consistenti 26 miliardi di risparmi previsti da qui al 2014. Al di là pure delle singole misure, che pre­sentano luci e ombre, che appaiono incisive ma dagli esiti non sempre prevedibili. Si pen­si al dimezzamento delle Province, raziona­le e da tempo atteso, ma che non è chiaro quali e quanti risparmi possa effettivamen­te generare. O al taglio del personale e dei di­rigenti pubblici. Che saranno pure in ecces­so in alcune amministrazioni, ma che co­stringe il governo a smentire se stesso: ope­rando una deroga alla riforma delle pensio­ni (come si potrà poi negare analoga mano­vra al settore privato?) e, per la prima volta, a licenziare migliaia di lavoratori. Oppure an­cora ai risparmi sulle Forze armate, operati solo sul personale e sul finanziamento delle missioni di pace, mentre le dotazioni d’arma non vengono ridotte.E infine, bene la cen­tralizzazione degli acquisti e il dimezzamen­to delle spese per le auto blu, bene la razio­nalizzazione dell’offerta ospedaliera e della spesa sanitaria in genere, ma non sappiamo quali effetti concreti sui servizi ai cittadini fi­nirà per produrre l’ennesimo taglio dei tra­sferimenti a Regioni, Province autonome e Comuni. Sulle singole scelte, allora, si può e si deve di­battere. E questo accadrà certamente, anche in Parlamento. Non va però fermata la gran­de operazione strutturale che il decreto fi­nalmente avvia. La revisione e riduzione del­la spesa pubblica non può restare uno slogan, se vogliamo uscire dalla spirale fatta di in­cremento della spesa, nuovo debito, aumento delle tasse, recessione. Piuttosto deve diven­tare un habitus , un metodo da applicare in maniera sistematica per liberare risorse da destinare alla riduzione delle imposte e all’a­zione della società civile. Perciò chi oggi rea­gisce e protesta, anche legittimamente, de­ve saper farsi carico di un “di più” di respon­sabilità. Non per compiacenza verso questo governo di buona volontà o la sua strana maggioranza. Ma per il Paese nel suo com­plesso. Post scriptum. Nell’ultima versione del de­creto sono stati cancellati 200 milioni di eu­ro attribuiti alle scuole paritarie. Si trattava della parziale reintegrazione di fondi dram­maticamente tagliati nei mesi scorsi (da 510 a circa 250). Perché aveva senso prevederla in un provvedimento teso a garantire rispar­mi? Perché per ogni alunno iscritto al siste­ma della scuola pubblica non statale, l’am­ministrazione risparmia quasi 6mila euro l’anno. Moltiplicato per un milione di stu­denti – quelli che attualmente frequentano le scuole paritarie – fa circa 6 miliardi. “Ri­sparmiare” 260 milioni, rischiando però di dover poi sborsare 6 miliardi, non solo non sarebbe un grande affare, ma getterebbe nel caos il sistema dell’istruzione pubblica. Tut­to: statale e non statale paritario. Meglio pen­sarci per tempo, e bene.
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