giovedì 23 febbraio 2012
COMMENTA E CONDIVIDI
Nel silenzio che si allarga dal mer­coledì delle Ceneri – memento quia pulvis es, et in pulverem reverte­ris – s’inizia il tempo della metànoia, del cambiamento interiore. Ieri il Pa­pa ha chiamato a questo capovolgi­mento del cuore. (Singolare distonia della Chiesa nel coro di voci che, tut­te, oggi invocano il cambiamento del­­l’altro, sempre e solo dell’altro. Come una stecca nel coro, una limpida no­ta dissonante: la metànoia di cui par­la Benedetto domanda conversione non all’altro, ma a noi). Quadragesima, è il nome antico dei quaranta giorni alla Pasqua. Quaran­ta come i giorni di Noè sull’arca, co­me le albe di Mosè sul Sinai, come gli anni di Israele nel deserto. Un tempo, commenta il Papa, «di perseveranza», bastante a vedere in atto le opere di Dio e a decidersi per lui. Un tempo che ci si immagina scorrere più lento, e più grave; e che vorremmo meno as­sediato dal rumore. Quaranta giorni: come, anche, quelli di Gesù nel de­serto. A questo tempo il Papa parago­na la Quaresima. Quaranta giorni in cui Cristo restò solo con il Padre, in u­na intima solitudine cui si abbevera­va; eppure proprio in quella pace mu­ta di rocce e sassi, e stelle, qualcosa d’altro si insinuava e premeva. Come confusa con il vento una voce sussur­rava e prometteva potere, e gloria. Nel­lo stesso deserto colmo di Dio, la cre­pa di quella voce straniera. «Questa situazione di ambivalenza descrive anche la condizione della Chiesa nel 'deserto' del mondo e del­la storia», ha detto il Papa. La Chiesa, cioè noi cristiani, ancora una volta in cammino verso una Pasqua che dica che la morte è vinta, e la pietra del se­polcro divelta. Ma, intanto, eccoci in questo spazio di quaranta giorni in cui vorremmo, ci proponiamo di cercare un nuovo sguardo. In cui cerchiamo magari momenti di silenzio e di verità su noi stessi, che illuminino la fatica opaca, o il dolore; ma alla cella dei no­stri deserti preme il mondo. Sono e­chi e boati, e grida di protesta, e scan­dalo, e meschinità, o anche solo il chiacchiericcio di parole inutili, di promesse vane; valanga di rumore che costantemente ci si rovescia addosso, e senza che ce ne accorgiamo ci stor­disce. Il deserto può essere anche un brusìo opprimente di voci, una ca­cofonia stordente che, senza negare esplicitamente un senso ai nostri gior­ni, ci annichilisce fino a che nemme­no più lo cerchiamo. Stretti fra i nostri due deserti procediamo, qualche vol­ta scoraggiati. Porterà poi davvero a una mèta questo cammino, questa lancia nel fiume del tempo che ogni anno ritorna e domanda che ci met­tiamo per strada verso la Pasqua, ver­so la Resurrezione? E sembra di sentire lo scalpiccio dei nostri passi faticosi, o cinici, o abituati. Convertirci? Noi? Via, come ci si può credere davvero. Ma, dice il Papa, «an­che per la Chiesa di oggi il tempo del deserto può trasformarsi in un tempo di grazia: anche dalla roccia più dura Dio può far scaturire l’acqua viva». Perché quell’acqua che disseta non viene da noi; non dal nostro anche o­nesto affannarci, ma dallo squarcio i­naspettato della roccia che svela, do­ve tutto sembrava morto, una fonte. E noi? Noi possiamo soltanto cammi­nare nel deserto, zitti abbastanza per sentire il fiato del vento; curvi sotto i nostri fardelli, e perseveranti, per non lasciarci sommergere da chi sussurra o grida che andiamo soltanto verso il nulla. In quel deserto lungo quaranta giorni pellegrini, che umilmente, pia­no, vanno. Certi che, come vuole e do­ve vuole, in questa polvere si alzerà un’alba nuova. (Forse la nostra mo­derna fatica a credere sta nel pensar­ci noi, con la nostra scienza e poten­za, i veri motori e artefici della salvez­za). Camminiamo per i nostri metropoli­tani deserti, ben certi che, lì, non po­trà crescere un solo filo d’erba. Di­mentichi del Dio che spacca le rocce e ne scaturisce sorgenti; del Dio di I­sraele nel deserto, del «primo amore tra Dio e il suo popolo», dice il Papa. Forse la legge del deserto lungo qua­ranta giorni sta nel non pretendere di misurare Dio con la nostra misura, nel non pensare di organizzarne la gra­zia. Ma semplicemente nel doman­dare; inermi, mendicanti, la mano a­perta e vuota.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: