sabato 20 luglio 2013
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Da un punto di vista costituzionale, il voto con cui il Senato ha respinto la mozione di sfiducia individuale contro il ministro dell’Interno Alfano presenta vari profili di interesse. Da un lato, infatti, non vi è dubbio che questo tipo di votazioni si inserisca in una prassi consolidata, in entrambe le Camere. Nonostante il silenzio della Costituzione – che prevede il rapporto di fiducia solo fra il Governo nel suo complesso e ciascuna delle due Camere – si è infatti affermata sin dagli anni Ottanta una prassi favorevole all’ammissibilità delle mozioni di sfiducia contro i singoli ministri, che sono state in vari casi oggetto di votazione, persino, talora, con anomalie non marginali (mozioni di sfiducia a viceministri, o a due ministri assieme, come quella contro Napolitano e Flick nel 1998). Tuttavia, osservato in prospettiva comparata e alla luce della logica del regime parlamentare, il voto che si è svolto in Senato è per più aspetti una singolare anomalia, quasi solo italiana: ed è un buon esempio delle non poche ragioni per le quali si deve mettere mano alla disciplina costituzionale della forma di governo, per modernizzarla e adeguarla a standard europei. Il primo profilo anomalo riguarda l’ammissibilità stessa delle mozioni di sfiducia contro singoli ministri. La logica del governo parlamentare, infatti, vuole che il governo sia espressione della maggioranza parlamentare e che ne sia al tempo stesso guida. In questo tipo di sistema il Parlamento ha certo il potere di revocare in ogni momento la fiducia al governo, obbligandolo alle dimissioni, ma fino a quando ciò non accade la fisiologia vorrebbe che il Governo funzioni come un comitato direttivo del Parlamento, conducendone l’azione e rendendola organica, affinché il governo e la sua maggioranza possano rispondere all’elettorato della loro azione.I governi parlamentari malfunzionanti si caratterizzano invece per una invasione dei rispettivi ruoli da parte di uno dei due attori, in particolare per la pretesa del Parlamento di ridurre il Governo a un suo 'comitato esecutivo'. E uno degli indici dell’assemblearismo è proprio il tentativo del Parlamento di incidere sulla composizione interna dell’esecutivo, invece che limitarsi ad accettarne o a respingerne la configurazione complessiva. Non è un caso che la sfiducia individuale sia un fenomeno ignoto nelle principali democrazie parlamentari europee. Ma l’anomalia si ingrandisce se si riflette solo per un attimo sul fatto che la mozione di sfiducia contro Alfano è stata presentata non alla Camera, ma al Senato. Qui viene infatti in scena il dato meno giustificabile del parlamentarismo italiano: quello per cui il governo deve godere della fiducia non solo della Camera – come accade in tutti i regimi parlamentari d’Europa – ma anche del Senato (ciò succede solo in Italia e in Romania). E se l’ammissibilità della sfiducia individuale dipende da una scelta dei regolamenti parlamentari e della prassi politica, il bicameralismo perfetto per quanto attiene al rapporto fiduciario è un’opzione (forse la più datata) che risale direttamente all’art. 94 della Costituzione. Ciò, fra l’altro, rende problematico costruire maggioranze omogenee nelle due Camere, elette con sistemi elettorali parzialmente diversi, come si è visto nello scorso febbraio. A queste due anomalie, se ne aggiunge poi una terza, che attiene ai comportamenti politici. Ci riferiamo a quei senatori del Pd che si sono dissociati dalla posizione ufficiale del loro partito nella votazione fiduciaria. Al riguardo deve essere ricordato che, se vi è una costante dei regimi parlamentari di partito, essa consiste nel fatto che sui voti a carattere fiduciario non è ammesso il dissenso all’interno dei gruppi parlamentari e che la rottura della disciplina di partito su un voto di fiducia significa autoesclusione dal partito stesso. Per ricordare un precedente della nostra storia si può tornare al luglio 1990, quando 5 ministri della sinistra Dc si dimisero dal VI governo Andreotti per dissenso sulla decisione di porre la questione di fiducia sulla legge Mammì. Ma dopo le dimissioni, i 5 (ex) ministri votarono disciplinatamente la fiducia. I tre profili ora indicati dimostrano quanto vi sia bisogno di riformare le nostre istituzioni, soprattutto se si muove dall’idea di preservare il regime parlamentare. I livelli su cui occorre intervenire sono infatti molteplici: la Costituzione, i regolamenti parlamentari, le prassi politiche, la disciplina di partito. Ma senza queste riforme la degenerazione assembleare del sistema di governo italiano non potrà essere contenuta e prima o poi una riforma assai più radicale finirà per imporsi, in un modo o nell’altro.
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