martedì 23 aprile 2013
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Gli applausi non bastano, servono i fatti: l’intensa, severa anche se mai umiliante, lezione di realismo, che Giorgio Napolitano ha impartito ieri ai neo eletti deputati e senatori del diciassettesimo Parlamento repubblicano, è riassumibile in queste poche e semplici parole. Il pesante sacrificio personale da lui accettato, forzando i suoi stessi profondi convincimenti prima ancora dei suoi limiti fisici, non può trovare corrispondenza solo nelle ripetute ovazioni che hanno costellato la mezz’ora di intervento pronunciato, fra comprensibili momenti di commozione, dalla postazione centrale di Montecitorio. E i fatti sollecitati in tono incalzante dal capo dello Stato sono quelli che gli italiani attendono ormai da troppo tempo invano. Sono le medesime esigenze da lui richiamate a più riprese, nei sette anni appena trascorsi e in particolare nell’ultima convulsa fase del governo Monti, in virtù di quel «senso antico e radicato di identificazione con le sorti del Paese» che l’ha persuaso a prendere di nuovo sulle spalle una "croce" mai cercata. Ma se, per sventura di tutti noi, questi fatti mancheranno, se nonostante lo spirito positivo con cui ha accolto l’invito al nuovo mandato, tutt’altro che rassegnato a «prendere atto» di un ulteriore irreparabile stallo, prevarranno ancora sordità e spirito di fazione, il presidente non indugerà un solo minuto nel «trarne conseguenze».Un monito, quest’ultimo, in qualche modo inevitabile, pronunciato al termine di una requisitoria impietosa, pur se aliena da toni sprezzanti. È evidente che Napolitano nutre, quasi contro l’evidenza di tutto ciò che ha dovuto osservare dal Colle più alto, una residua ma tenace speranza che i protagonisti del penoso spettacolo degli ultimi giorni intendano seriamente voltare pagina. Ne ha visto la conferma nell’investitura corale per il suo secondo settennato. Per questo la sferza dei giudizi sui ripetuti casi di «omissioni, guasti, chiusure e irresponsabilità» fatti registrare dai partiti, è scesa sull’emiciclo con accenti di inusitata franchezza, ma non sconta nessuna dose di scetticismo sul futuro comune. Perché l’Italia, ha scandito richiamando il suo intervento di un anno e mezzo fa al Meeting di Rimini, conserva «grandi riserve di risorse umane e morali».Il presidente ha fatto più volte riferimento alle "ricette" elaborate dai due gruppi di "saggi" nelle ultime settimane. Ha citato il recente rimprovero del presidente della Consulta Franco Gallo per la mancata riforma della legge elettorale. Ha posto ancora sul tappeto le grandi sfide dell’economia nazionale da rimettere in moto, per garantire lavoro e futuro a un’intera generazione sempre più incline a «gesti disperati». Tutto questo spetta al futuro governo, alla cui formazione egli si accinge a collaborare, senza forzature ma anche senza farsi condizionare dalle «chiacchiere» attorno a formule o definizioni. Il suo ruolo è fungere da «fattore di coagulazione» di una linfa democratica che rischia ormai di sfuggire dal circolo fisiologico delle istituzioni, straripando in una piazza «avventurosa e deviante» che qualcuno vorrebbe in «contrapposizione» alle Camere.
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