giovedì 3 luglio 2014
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Il lungo e visibilmente convinto applauso che ha accolto ieri il discorso di Matteo Renzi all’Europarlamento, coinvolgendo anche molti esponenti di gruppi avversari di quello del premier italiano, può suscitare diverse riflessioni. Può indurre negli spiriti patriottici di casa nostra un inatteso ma in fondo inutile moto di orgoglio nazionalistico. Può confermare gli scettici - che siano "euro" o "italo" cambia poco - nei loro giudizi di ipocrita inutilità dell’Unione. Ma può anche, più semplicemente, essere accolto come il segnale che un’ampia maggioranza dei 751 parlamentari europei eletti tra il 22 e il 25 maggio scorso condivide davvero toni e argomenti usati dal nuovo presidente di turno del Consiglio Ue. In tal modo assumendo implicitamente un forte impegno ad affiancare gli organismi esecutivi di Bruxelles, nel comune sforzo di rilancio di un’ideale che non può essere relegato fra i sogni infranti della nostra storia comune.La cifra più positiva dell’intervento renziano, aldilà dei suggestivi riferimenti storico-mitologici, è stata infatti soprattutto questa: a quasi 70 anni dalla fine di un conflitto bellico devastante, l’ultimo e il più immane in una corona secolare di guerre che hanno seminato lutti e divisioni fra i 28 popoli oggi riuniti sotto la bandiera delle dodici stelle, l’idea di Europa, la sua «identità forte e profonda», va rilanciata con tutta la convinzione possibile e, soprattutto, con uno sforzo supplementare di lungimiranza e di solidarietà. È ovvio - il premier italiano non se l’è certo nascosto - che si dovranno fare i conti fino in fondo con la dura realtà dei fatti, a partire dagli esiti ancora in bilico di una crisi economico-finanziaria di cui continuiamo a pagare il pesante costo. Così come non ci si può illudere di sgomberare il terreno degli egoismi nazionali con un colpo di bacchetta magica o con qualche ben studiata "operazione simpatia" (prova ne sia il duro botta e risposta con il presidente tedesco del gruppo del Ppe). Ma resta vero che il rischio di un tramonto dell’edificio comune, per «stanchezza» o per «noia», non si può scongiurare solo con una diversa declinazione del binomio rigore-crescita. Il salto in avanti deve coinvolgere l’«anima» dei popoli del Vecchio continente e in particolare le nuove generazioni, che vivono un’apparente contraddizione: da un lato avvertono più di tutti la distanza fra le alchimie e i bizantinismi delle regole comunitarie, dall’altro usufruiscono con grande naturalezza di acquisizioni consolidate della casa comune europea, come la moneta unica e la libertà di trasferirsi e risiedere indifferentemente in uno qualsiasi dei 28 Stati membri.La sfida allora è di ridurre, possibilmente fino a colmare, quella distanza e di evitare ricadute antistoriche in nuovi confini e barriere di divisione. Ecco perché non dovrebbero essere considerati né retorici né fuori contesto i riferimenti di Renzi al ruolo di pace e di dialogo, che l’Europa deve assolutamente tornare a ricoprire con efficacia, in scenari vecchi e nuovi di tensione come il Medio Oriente e l’Ucraina. Ancor meno vanno sottovalutati i riferimenti alla libertà religiosa minacciata in più di un’area del mondo, soprattutto a danno delle minoranze cristiane. E questo per la semplice ragione che atteggiamenti europei di indifferenza o di sufficienza, di fronte a casi come quelli della pakistana Asia Bibi, della sudsudanese Meriam o delle giovani nigeriane rapite, equivalgono a screditare la sua immagine agli occhi del mondo e a intaccare la sua stessa «dignità» storica.Se poi l’Europa dei padri non volesse o non riuscisse più a raccogliere questa sfida, siano i giovani, sia la «generazione Telemaco» a mettersi in gioco. Lo ha auspicato ieri il premier italiano, senza però blandire i suoi coetanei e quanti li seguono: perché anche per loro, come per tutti i figli degli stanchi Ulisse del nostro tempo, è passato «il tempo dei trastulli e dei balocchi».
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