martedì 29 dicembre 2015
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La riconquista di Ramadi restituisce l’orgoglio alle forze armate irachene, umiliate dalle catastrofiche sconfitte patite negli ultimi due anni: in diverse occasioni, intere divisioni si erano disintegrate, nonostante la superiorità numerica e in armamenti, dinanzi all’assalto delle milizie di Daesh. E a rendere ancora più significativa la vittoria sul campo contro gli uomini del califfato vi è la scelta del governo di Baghdad di non schierare in prima linea le milizie sciite addestrate dagli iraniani, che quest’anno hanno puntellato spesso – se non addirittura sostituito – le forze militari nazionali. Una scelta saggia: Ramadi è il cuore dell’Iraq arabo-sunnita; bisognava quindi evitare di rinfocolare il settarismo sunnita-sciita che offre ai terroristi jihadisti facili argomentazioni propagandistiche.Dal punto di vista strategico, la liberazione della città – oltre a mettere in sicurezza l’intero Iraq centrale – permette anche di impostare la campagna per la riconquista di un’altra città simbolo dell’Iraq, ossia Mosul, la capitale del governatorato di Ninive, nel nord del Paese. Terza città più popolosa dopo Baghdad e Bassora, Mosul rappresenta da sempre il cuore della presenza cristiana in Iraq, con una comunità fra le più antiche del cristianesimo orientale. Dal giugno del 2014 è nelle mani feroci degli jihadisti, i quali hanno costretto alla fuga le minoranze religiose, compiuto eccidi sconvolgenti e distrutto vestigia di valore culturale inestimabile. Non sorprende che il primo ministro iracheno, al-Abadi, ne consideri prioritaria la liberazione: per Daesh perdere anche Mosul dopo Ramadi significherebbe ben più di una semplice sconfitta sul campo, dato che verrebbe cacciato dalle zone più significative dell’Iraq. Di fatto sarebbe la fine del sogno califfale sopra le ceneri dei vecchi confini coloniali.Ma sottrarre Mosul alla follia jihadista rappresenta molto di più: non si tratta solo di sconfiggere militarmente Daesh, ma mettersi in gioco a più livelli, alcuni evidenti, altri maggiormente "sottili" ma non per questo meno importanti. E mettersi in gioco tutti. Il governo di Baghdad innanzitutto, che deve pianificare una campagna che non sia solo militare, ma che dimostri la volontà di lottare contro i settarismi e le "pulizie etniche", da qualsiasi parte provengano. Quindi, se le forze armate irachene – aiutate dalla campagna aerea occidentale – rientreranno nella città, Baghdad dovrà attivarsi subito per permettere a tutte le minoranze etniche e religiose cacciate dagli jihadisti di rientrare – a pieno titolo – a Mosul. Il che significa ridare le proprietà confiscate a chi le possedeva e offrire aiuti ai chi è stato privato di tutto.Ma gli iracheni da soli non possono farcela. Papa Francesco ha più volte denunciato lo scandaloso silenzio sulla condizione dei cristiani in Medio Oriente. Bene, Mosul offre l’occasione per romperlo definitivamente: chi – soprattutto in Europa – ha sempre centellinato parole e dichiarazioni per un senso meschino e cieco di "imparzialità" fra le religioni ha la possibilità – anzi, ha il dovere – di parlare. E chi ha già parlato in passato, spesso cavalcando in modo strumentale e demagogico i valori cristiani, può finalmente fare. Agire concretamente per aiutare tutta la popolazione di Mosul e tutte le sue minoranze – che non sono solo cristiane – a riconsolidare il legame, lacerato a forza da Daesh, con il loro territorio. Perché le minoranze che rientrano avranno bisogno di pubblico rispetto e di solida assistenza, non solo di carità privata, per ricostruire la loro presenza. In altre parole, occorrono soldi e progetti di cooperazione e di stabilizzazione post-conflitto. Occorre un aiuto organizzato, nella forma di donazioni, allocazione di fondi specifici da parte della Commissione Europea, delle Agenzie per la cooperazione (e in primis dovrebbe agire quella italiana) e dell’azione delle organizzazioni non governative. Perché più di ogni altra città irachena, Mosul rappresenta la pluralità etnico-religiosa che è stata e deve continuare a essere una caratterista storica del Medio Oriente. Ricostruire questa policromia culturale è l’altra grande battaglia da ingaggiare nel nostro tempo: un impegno di civiltà per tutti noi.
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