giovedì 4 luglio 2013
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Sono passati poco più di due anni e di nuovo i carri armati rombano per le strade del Cairo. Se nel 2011 il rifiuto dei militari di attuare una brutale repressione portò alla caduta dell’"eterno" Hosni Mubarak, oggi la loro determinazione nell’evitare che il dilagare della proteste degenerasse in una paralisi totale del Paese ha portato a questo (annunciato) colpo di Stato. O meglio, come scriveva il politologo Jean Bodin nel XVI secolo, a un «colpo dello Stato», in cui lo Stato si mostra deciso a proteggere se stesso dall’anarchia e da politiche suicide. Impossibile ora dire se questa mossa avrà ora successo e poi ragionevole limite, se fermerà insomma lo scivolamento del più importante Paese arabo nel gorgo mortale di crisi economica, contrapposizione politica, scontri e insicurezza nelle strade, paralisi amministrativa o se, al contrario, non finirà con l’accelerare lo scoppio di violenze settarie ancora maggiori.Certo, sembra un epilogo sorprendente per la breve presidenza di Morsi e una delusione ancora più cocente per i Fratelli musulmani, arrivati al potere dopo decenni di clandestinità o opposizione. Ma è inutile scomodare teorie complottiste o gridare allo "scippo di elezioni democratiche". Gli islamisti sono i primi responsabili della loro disastrosa esperienza governativa. E non tanto perché non sono riusciti a dare risposte alla gravissima crisi economica: nessuno oggettivamente avrebbe potuto farlo. Le loro colpe – ben evidenti sotto il sole egiziano – sono altre e hanno a che fare con la loro "bulimia" di potere e con il "solipsismo" della loro agenda politica.Subito dopo la caduta di Mubarak, per rassicurare chi, dentro e fuori il Paese, ne temeva la popolarità, i Fratelli musulmani promisero di non correre per le elezioni presidenziali, limitandosi a quelle parlamentari. Una promessa infranta dopo il successo del loro partito e di quelli salafiti. Una volta che il loro candidato (un esponente di seconda fila, a causa dell’incandidabilità del leader) divenne presidente, ecco l’errore maggiore, ossia quello di imporre un programma politico ricalcato sui loro dogmi, che non teneva conto delle minoranze non islamiche o dei molti milioni di egiziani che sono e si sentono musulmani, ma non islamisti. La Costituzione, imposta con protervia a quasi metà nazione, ne è stata la dimostrazione.Come sempre, il discorso politico dei movimenti islamisti si è rivelato profondamente divisivo delle loro società: ha infatti polarizzato e lacerato la popolazione egiziana. Dinanzi a questa divaricazione, ecco il loro nuovo errore: invece di cercare di rafforzare l’unità aprendo alle opposizioni, hanno preferito arroccarsi nell’ideologia islamista, alleandosi con i movimenti salafiti, la cui popolarità andava aumentando, indebolendo ulteriormente il presidente. Una mossa che ha reso la loro politica ancora più dogmatica, facendo di Morsi il nemico da abbattere agli occhi di un numero crescente di cittadini.La forza delle armi adesso impone all’Egitto di ripartire da capo. Sta ai diversi attori in gioco scegliere come. Possono optare per la via della contrapposizione, alimentando la violenza e l’odio verso l’avversario politico e tentando di imporre le loro agende di parte, o capire che in questo momento non vi è altra strada che un governo di unità nazionale, in cui tutte le parti siano rappresentate. Da un lato, i militari possono essere sì i garanti, ma non i governanti diretti dell’Egitto, né possono pensare solo ai loro privilegi. Dall’altro, liberali, nazionalisti e islamisti devono resistere alla tentazione di rincorrere i propri estremisti, di crearsi le proprie milizie o di fomentare la violenza, per cercare di gestire un Paese dilaniato e piegato dalla crisi economica. E soprattutto per garantire la difesa dell’identità egiziana, per decenni un simbolo nel mondo arabo, svilita dal settarismo dei Fratelli musulmani.
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