martedì 8 luglio 2014
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Aveva colpito, tempo fa, un’espressione usata da Papa Francesco a proposito degli abusi sui minori compiuti da preti e vescovi. «È come fare una messa nera», aveva detto di ritorno dalla Terra Santa, nella conferenza stampa sull’aereo coi giornalisti al seguito, ribadendo subito dopo la determinazione ad «andare avanti» sulla strada del contrasto e della denuncia, con l’unico atteggiamento possibile: «Tolleranza zero». Due espressioni che mai, in passato, erano uscite direttamente dalla bocca di un Pontefice; ma se la seconda, in qualche modo, era risuonata nei media come sintesi di un’idea chiarissima manifestata tanto da Benedetto XVI che da Francesco, la seconda – messa nera – aveva perforato le orecchie come un’esplosione. Difficile, infatti, immaginare un modo più forte, più estremo, più definitivo per dire, da parte di un Papa, tutta la gravità e tutto l’orrore per il fatto che alcuni sacerdoti e vescovi «hanno violato l’innocenza di minori e la loro propria vocazione sacerdotale abusandoli sessualmente», come ha scandito ieri mattina, nell’omelia della messa mattutina a Santa Marta che ha voluto tenere, come aveva annunciato proprio quel giorno sull’aereo, con alcune di queste vittime. E durante la quale, quasi a riprendere, spiegare e approfondire quelle brevi battute di poco più di un mese fa, ha di nuovo parlato di quei «crimini» come di «qualcosa di più che di atti deprecabili», paragonandoli a «un culto sacrilego» in quanto quei bambini «erano stati affidati al carisma sacerdotale per condurli a Dio ed essi li hanno sacrificati all’idolo della loro concupiscenza". Preti e vescovi che, coi loro gesti, hanno così "profanato la stessa immagine di Dio». Quei bambini e quelle bambine abusate, oggi uomini e donne dalle vite devastate, ieri mattina erano di fronte a Francesco. Che ha chiesto perdono, per quanto da loro subito e per le omissioni di quei "capi della Chiesa" che hanno taciuto di fronte all’orrore o girato la testa dall’altra parte. E li ha ringraziati per il «coraggio» dimostrato nel fare emergere la verità, offrendo così un «servizio d’amore» alla Chiesa, consapevole di come quei crimini abbiano «un effetto dirompente sulla fede e la speranza in Dio».Un’omelia, quella di Francesco, tesa e densa fino alla drammaticità. Intrisa di dolore – anzi di più, di vergogna – personale per qualcosa che mai sarebbe dovuto succedere neppure una volta sola, e rocciosa nell’insistere su un impegno dove il «mai più» non può, non deve essere considerato una semplice tensione ideale, ma un obiettivo concreto e tangibile da raggiungere al più presto, oggi, subito. Deciso in questo, Francesco, nel solco di Benedetto, a non guardare in faccia nessuno che abbia fatto e nascosto il male, perché, appunto, chi sfigura l’uomo, e un bambino in particolare, sfigura Dio. Duro: «Per tutti noi vale il consiglio che Gesù dà a coloro che danno scandalo, la macina da molino e il mare». Più chiaro di così.Sono le imprescindibili esigenze di una giustizia negata a tante, troppe, vittime, e che mai più dovrà esserlo. Ma che tuttavia mai potranno sostituirsi alla dinamica della misericordia nella quale siamo tutti chiamati a entrare, perché «riconciliarci è l’essenza stessa della nostra comune identità come seguaci di Cristo». Dinamica che coinvolge tutti. Le vittime, certo e innanzitutto, così che al danno subentri «una fede e una gioia rinnovata». I pastori, affinché i loro cuori «vedano sempre con chiarezza la strada dell’amore misericordioso». Gli Stati, aggiungiamo a nostra volta, perché affrontino come meritano e sradichino queste violenze che si fanno anche affari. E noi tutti; perché noi tutti, come Pietro nell’incrociare gli occhi di Gesù all’uscita dall’interrogatorio che prelude alla crocifissione, possiamo essere capaci di piangere. E di vergognarci.
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