mercoledì 20 marzo 2013
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​L’Angelus di domenica, il primo di papa Francesco, mi ha rivelato un fatto straordinario: abbiamo un Pontefice che si esprime per parabole, come Cristo. Abituati a un Papa poeta e drammaturgo, teso e intenso come Wojtyla, a un filosofo lucido quanto appassionato, come Ratzinger, oggi scopriamo un narratore sapienziale e antico. Il racconto della vecchia ultraottantenne, chiamata «nonna» come usa in Argentina, che Francesco mette al centro del suo intervento, è una parabola. Ripercorriamo la breve storia, la conclusione fulminea e lapidaria: la vecchietta si vuole confessare, ma il sacerdote simpaticamente smaschera la sua natura di non peccatrice: «Ma che peccati ha mai fatto, lei?». L’anziana, umile donna risponde: «Chiunque pecca. Ma se Dio non perdonasse tutti, il mondo non esisterebbe». Francesco fa propria la frase conclusiva: senza il perdono di Dio, universale, assoluto, il mondo non esisterebbe. Non dice, la povera vecchietta, che il mondo sarebbe infelice, o incompleto. Ma che non esisterebbe. Il Pontefice racconta dell’incontro con la vecchia donna, di cui sottolinea l’umiltà, che implica un modesto livello di istruzione. Ma alla sua affermazione il futuro Papa replica: «Lei ha studiato alla Gregoriana?». Come Cristo, Francesco si esprime attraverso una parabola. La parabola è un racconto, dove in luogo della riflessione è in scena un’azione. La parabola è viva, priva di astrazioni, intrinsecamente immanente e trascendente. E attenti a definire papa Francesco sbrigativamente un "semplice", quasi che la semplicità di cuore, in lui indiscussa, evidente, implicasse una certa correlata semplicità di ingegno. La frase «se Dio non perdonasse tutti, il mondo non esisterebbe» esprime una concettualità enigmatica, così complessa da sembrare paradossale. Degna di un grande compatriota di papa Bergoglio, lo scrittore argentino Jorge Luis Borges: l’amore e la misericordia infiniti fanno reale il mondo, gli consentono di esistere. Senza tale amore e misericordia il mondo scomparirebbe, o non sarebbe mai nato. Come sa chiunque ci rifletta un istante, la parabola è di immediata comprensione, subito, e poi di enigmatica complessità, a pensarci. Ha il movimento subitaneo e profondo della vita, di cui ricrea l’evidenza e il mistero. Elementarità sapienziale. Per questo, poi, in quella domenica mattina illuminata dalla parola che vanifica la pioggia e spalanca il cielo, l’Ave Maria in latino, suona naturale, facile, comprensibile. Non solo a me e a mia moglie, che leggiamo e traduciamo il latino. No, anche ai due amici invitati al pranzo domenicale, che il latino non conoscono. Si vede che comprendono ogni parola. La potenza della parabola ha reso chiara la lingua sacra e antica. Il Papa delle parabole si esprime come un antico sapiente: umile, ma tutt’altro che ingenuo come alcuni possono, pur con spirito di ammirazione, pensare: ci vogliono anni di studio e sacrificio per conseguire la sapienza della mente. Ci vuole un’esperienza radicale, estrema, come è concessa solo a spiriti puri e illuminati, per conseguire la sapienza del cuore. Fare della propria parola qualcosa pari alla vita. Farsi parabola, entrare gioiosamente nel mattino di chi ti sta aspettando.
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