martedì 9 luglio 2013
COMMENTA E CONDIVIDI
È stata una lezione di umanità. Non è andato a fare prediche, non è andato a proporre ricette. Si è inginocchiato davanti a una realtà che l’aveva colpito «come una spina nel cuore». Ha gridato il suo dolore, ha pregato, ha chiesto perdono, ha risvegliato le coscienze. Il primo viaggio di papa Francesco, così carico di significati simbolici, ha puntato dritto a una periferia che è insieme geografica ed esistenziale: Lampedusa, estremo lembo meridionale dell’Europa, capolinea e trampolino di tanti viaggi della speranza che spesso annegano nella disperazione. Per la Messa celebrata in una giornata luminosa come quelle che il Mediterraneo sa regalare in questi giorni, ha scelto il viola, il colore della penitenza. Ha chiesto perdono per l’indifferenza globalizzata, il tarlo che morde le menti e i cuori di «coloro che con le loro decisioni a livello mondiale hanno creato situazioni che conducono a questi drammi», come di chi vive accomodato in un benessere cieco che porta all’anestesia del cuore. Francesco è stato maestro di umanità perché prima di spiegarci 'cosa fare', ci ha testimoniato 'come stare' di fronte a quelle ventimila invisibili bare che giacciono in fondo al mare e di fronte alle moltitudini che partono dall’Africa sognando un destino migliore. Per non diventare tutti 'innominati', responsabili senza nome e senza volto di tragedie che si consumano sotto i nostri occhi – a volte sulla stessa spiaggia dove prendiamo il sole – bisogna anzitutto 'stare', 'patire con'. Troppo facile scaricare tutto il peso della questione-immigrazione – uno dei nodi più difficili da sciogliere nell’era della globalizzazione che ha aumentato le disuguaglianze e insieme le possibilità di muoversi da un Paese all’altro – sulla politica, che pure porta pesanti e irrimandabili responsabilità. Troppo facile esercitarsi nel tiro al bersaglio sui presunti colpevoli. Oggi, come ai tempi di Gesù, la questione fondamentale non è 'di chi è la colpa', ma 'come si fa a vivere'. Come si fa a girare la testa dall’altra parte, a chiamarsi fuori, ad accontentarsi del proprio tornaconto, quando il dolore ti passa accanto? Come si fa a restare sordi di fonte alla domanda che riecheggia dagli albori della storia umana: «Dov’è tuo fratello?». E da chi possiamo imparare a 'stare' in questa posizione umana? Il Papa ce lo ha indicato andando a incontrare il popolo di Lampedusa. Di solito chi vive nelle terre di frontiera assume istintivamente un atteggiamento di diffidenza, di paura, o di aperta ostilità nei confronti dell’altro, di quanti arrivano da mondi lontani e da altre culture. In questi anni i lampedusani con l’aiuto spesso determinante di forze dell’ordine e marinai impegnati in centinaia di operazioni di salvataggio in mare – hanno testimoniato un’apertura e una capacità di accoglienza assai più forti delle loro limitate disponibilità, assai più larghe di una 'normale' misura, e che ha trovato espressione in un neologismo locale, o’ scià, che letteralmente significa 'fiato mio' e indica il sentimento di chi considera l’altro come qualcuno che gli è necessario. Come parte inseparabile del proprio destino. Per questo il Papa ha salutato così i lampedusani, i migranti che lo ascoltavano e tutti coloro ai quali idealmente si è rivolto. Per questo ha abbracciato questa piccola comunità che offre al mondo una grande testimonianza, indicandola a tutti come faro di umanità nel mare dell’indifferenza. Ma per cogliere appieno la lezione che arriva da questa indimenticabile giornata, dobbiamo guardare al gesto che ne segna l’ideale coronamento: l’affidamento alla Vergine di coloro che sono costretti a fuggire per cercare futuro, la preghiera per tutti noi, distratti e prigionieri delle nostre paure, e «per la conversione del cuore di quanti generano guerra, odio e povertà, sfruttano i fratelli e fanno indegno commercio della loro fragilità». La conversione dei trafficanti di uomini, più decisiva di qualsiasi ferrea legge.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: