martedì 15 gennaio 2013
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​«I libici – confidava il console italiano a Bengasi Guido De Sanctis a una manciata di ore  dall’agguato di sabato sera – c’entrano poco». Uomo di sperimentata riservatezza oltre che di alto profilo professionale, De Sanctis – sfuggito come è noto a una raffica di mitra che senza la blindatura della sua automobile avrebbe potuto costargli la vita – di più non intende dire. Ma ciò basta e avanza a confermare, anzi a convalidare un sospetto nato (nel nostro caso, per lo meno) nell’ormai lontano aprile del 2011, quando da Bengasi seguivamo le prime fasi della rivolta libica che avrebbe portato al rovesciamento del regime di Muammar Gheddafi e alla sua brutale esecuzione pochi mesi dopo. Già allora fra le file dei disorganizzati shabaab, i giovani che diedero vita a un’insurrezione che mescolava i proletari delle periferie urbane della Cirenaica agli studenti universitari, i piccoli commercianti agli ex militari, ci parve di intravvedere in quegli improvvisati campi di addestramento il profilo molto ben dissimulato di un’organizzazione assai meglio preparata di quella rumorosa armata che al mattino saliva sui pick up per affrontare senza una vera e propria strategia l’esercito regolare di Gheddafi. «L’ombra di al-Qaeda», scrivemmo, e non eravamo lontani dal vero: quei silenziosi istruttori, quei guardiani in nero che vedevamo circolare fra Bengasi, Ras Lanuf, Misurata, quei volti da occhiuti commissari politici non appartenevano certo alla shabaab (in arabo: gioventù), ma a una lebbra che si stava lentamente diffondendo dal Corno d’Africa al Polisario e che ora agisce senza più celarsi dal Mali alla Mauritania, dall’Algeria alla Somalia. Unico errore di prospettiva: all’epoca pensavamo solo ad al-Qaeda, agli epigoni di Ossama Benladen, mentre in realtà era già in atto una superfetazione di quel jihadismo che ribolliva dal Maghreb a Mogadiscio e che con l’al-Qaeda storica aveva ormai soltanto una vaga parentela. Viceversa le similitudini ideologiche, religiose e politiche sono molteplici. Stiamo parlando di jihadisti, di integralisti che nel miserrimo Sahel come nell’ingovernabile Corno d’Africa "vendono" la sharia (la legge coranica) come antidoto alla modernità e come unica promessa di riscatto morale. al-Qaeda e il verbo di al-Zawahiri sono ancora presenti, certo, ma per i i narco-salafiti di Aqim (al-Qaeda nel Maghreb Islamico) che si finanziano con i rapimenti e la droga (come questo giornale ha più volte documentato), che comprano armi dall’Iran e che ora affrontano i "crociati infedeli" eleggendo il Mali come una replica dell’Afghanistan dei taleban la posta in gioco è molto più vasta del quadrante desertico subsahariano. Ed ecco allora la Libia, tassello debole delle primavere arabe, liberata dal mezzo secolo gheddafiano ma non dalla propria inadeguatezza nell’allestire uno Stato di diritto. Nel giugno scorso un convoglio britannico è stato preso a colpi di bazooka. L’11 settembre del 2012, sempre a Bengasi, è stato ucciso l’ambasciatore americano Chris Stevens. Spari e intimidazioni si sono succeduti negli ultimi mesi con l’effetto non secondario di veder chiudere in Cirenaica gran parte delle rappresentanze diplomatiche e umanitarie (Onu e Croce Rossa compresi): solo la Turchia, l’Egitto e la Tunisia resistono. Anche il nostro consolato per ora verrà chiuso. Qual è dunque il disegno? Fare della Cirenaica un’enclave fondamentalista, una specie di badland a regime jihadista, dove il governo di Tripoli non abbia voce e men che meno le rappresentanze diplomatiche e commerciali (pensiamo solo al ricco business del petrolio nella Sirte) occidentali. Questa è una guerra, non c’è dubbio. E sono in molti a ritenere che durerà anni.
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