martedì 17 gennaio 2012
COMMENTA E CONDIVIDI
Un midrash sull’Esodo, cioè un testo della tradizione rabbinica, ricorda che le Dieci Parole furono scritte cinque su una tavola e cinque sull’altra. Sulla prima era indicato: «Io sono il Signore tuo Dio», su quella di fronte: «Non uccidere». Questo insegna – spiega la sapienza ebraica – «che chiunque sparge sangue umano, la Scrittura gliene chiede conto come se sminuisse l’immagine del Re». Detto in altro modo, il comandamento «Non uccidere» non è una semplice affermazione di principio ma chiama in causa il rapporto che unisce Dio al mondo che ha creato, a cominciare dall’uomo, il frutto più grande del suo amore.Dalla morte di Abele per mano di Caino in poi, ogni omicidio è sempre fratricida, non toglie vita soltanto alla vittima ma anche all’esecutore che, essendo parte della medesima famiglia umana, viene privato del suo stesso sangue. Proprio il legame che unisce la creatura al Creatore, declinato secondo il quinto comandamento, è il tema guida della Giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo tra cattolici ed ebrei, che si celebra oggi. Ogni anno, dal 1990, la Chiesa italiana mette in calendario un momento che più di ogni altro vuole evidenziare il rapporto privilegiato che lega le due fedi. E lo fa il 17 gennaio, vigilia della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, a ribadire il momento in cui tutto è iniziato, la radice ebraica del nostro Credo e la sua centralità nel rendere efficace l’incontro tra chi, pur seguendo lo stesso Cristo, fa parte di Chiese differenti.Le Dieci Parole, su cui da alcune stagioni si sofferma la Giornata, sono una delle ricchezze maggiori di questo patrimonio comune. Il Decalogo o Dieci Comandamenti – ha detto Benedetto XVI due anni fa durante la visita alla comunità ebraica di Roma – «che proviene dalla Torah di Mosè costituisce la fiaccola dell’etica, della speranza e del dialogo, stella polare della fede e della morale del popolo di Dio, e illumina e guida anche il cammino dei cristiani». Una riflessione che vale una volta di più per il richiamo a difendere la vita, compresa quella più emarginata e fragile. «Non uccidere» chiama a scelte di pace, al rifiuto della violenza, all’amore e al rispetto verso il prossimo, cominciando dagli ultimi. I «prediletti dal Padre» che nel Primo Testamento sono esemplificati nell’orfano, nello straniero e nella vedova, oggi hanno il volto del bambino rifiutato, del padre che perde il lavoro, del malato abbandonato a se stesso, dell’immigrato partito da un Paese che lo rifiuta per una terra che non lo vuole.Ecco allora il dovere di tutelare la vita sempre, personale o pubblica che sia, proibendo l’omicidio certo ma anche condannando gli atteggiamenti di odio e invidia che a quel gesto estremo possono portare. Perché si può parlare di morte anche per chi, vittima di violenza e soprusi, è costretto a reinventarsi in un’esistenza che non sente sua o subisce l’emarginazione per una colpa che non ha commesso. «Non uccidere» è l’invito a mettere vita là dove sarebbe più facile spegnerla del tutto, chiede di instillare amore nelle nostre esistenze inaridite, è una tappa centrale di quell’itinerario di santità che chiamiamo Decalogo. Una vocazione insieme personale e comunitaria. Un cammino verso il Padre in cui ciascuno è responsabile di se stesso ma anche delle persone in viaggio con lui. «Chi fa perire un solo uomo – insegna la sapienza rabbinica – è come se facesse perire il mondo intero».
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: