giovedì 25 luglio 2013
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Lunedì compie 100 anni Erich Priebke, e non si è ancora pentito. Sta bene, è sordo ma cammina senza bastone, e non s’appoggia alla badante, se non per un attimo, quando si alza dalla sedia. Si vede che il suo punto debole sono le ginocchia. È leggermente ingrassato, specialmente alle guance, ma la figura è quella di un uomo in forma. Lo sto guardando in un video, i giornali lo seguono e lo filmano, vogliono vedere e mostrare come compie i 100 anni il protagonista di una delle più crudeli stragi della storia. Lui cammina con eleganza, si siede a un bar all’aperto, si guarda intorno, non vuole giornalisti o fotografi, vede la cinepresa che lo inquadra, alza una mano minacciosa per allontanarla. È abituato al comando. Era un capitano, Priebke. E gli amici e i frequentatori, non pochi, lo chiamano ancora "il capitano". Per chi non lo sa, il capitano comanda una compagnia, circa 200 uomini, e ha sotto di sé i tenenti che comandano i plotoni, 40 uomini, e i sergenti che comandano le squadre, 10 uomini. Tener conto di questa gerarchia è importantissimo per capire chi ha la responsabilità di ciò che accadde dentro le Fosse Ardeatine: chi uccise, materialmente parlando? da chi dipendeva? quali comandanti stavano con la truppa? e cosa facevano? Gli ordini che ricevevano erano spropositati rispetto alla loro disposizione a eseguirli? Il problema è qui, e la risposta è: no, erano ordini coerenti. La sequenza con la quale vengono presentate le carneficine di allora (e quelle successive, in Vietnam, Cambogia, Bosnia, Iraq...) è sbagliata. Non è che prima arrivano gli ordini tremendi e poi si cercano i soldati per farglieli eseguire: no, prima esistono i soldati obbedienti, poi arrivano gli ordini terribili. Questa sequenza vale anche nelle biografie: Priebke si iscrisse al nazismo nel primissimo momento in cui il nazismo nasceva. Era un obbediente a priori. Gli ordini terribili che lui e quelli come lui ricevevano erano possibili perché i comandi superiori sapevano a priori che sarebbero stati obbediti. Adesso gli ufficiali delle SS dicono: "C’era Hitler, non potevamo deluderlo", ma allora Hitler pensava: "I miei seguaci aspettano, non devo deluderli". Dentro le Fosse Ardeatine, noi pensiamo che il compito di sparare ai prigionieri, uno alla volta, toccasse ai soldati semplici, ma non è vero:  gli ufficiali fino al grado di capitano, come Priebke, "davano l’esempio", cioè sparavano per primi. A Priebke toccò più volte, perché i suoi sottoposti tremavano paralizzati. Lui doveva dominare il tremore altrui, e scuotere l’altrui paralisi. Erano tempi atroci, lui e i suoi camerati erano acciecati, hanno visto male, hanno capito male, hanno fatto male? Lo dica. Finché non lo dice, resta dall’altra parte, la parte contraria all’umanità. Un suo amico parla per lui e dice: «Se gli chiedete il pentimento, gli chiedete di fare il buffone». Espressione altamente rivelativa. C’è tutto, in quell’espressione. C’è il problema. Il buffone fa ridere, incarna la farsa, sta al di sotto di tutti, non è serio. Uno che non si pente è serio, ha coerenza, ha grandezza, non appartiene alla commedia ma alla tragedia. Merita ammirazione. Così si spiega perché mai Priebke continuino a chiamarlo col grado di capitano, a fargli visita, portargli doni, fargli brindisi. I suoi amici e frequentatori dicono che col passare degli anni «diventa sempre più religioso», perché sente avvicinarsi la fine. Non riesco a conciliare questo «diventare sempre più religioso», nel senso di cristiano, e dichiararsi non-pentito. C’erano anche 15 ragazzini, tra i prigionieri massacrati alle Ardeatine, e al giornalista che gli chiedeva: «Non si trattò di assassinio plurimo?» l’ex-capitano rispose sdegnato: «Che parolone!». Qui, e nei tanti casi come questo, si tratta di ridare un senso alle parole. Iscriversi al nazismo appena nasce non significa subirlo, ma imporlo. Uccidere per dare l’esempio non significa star neutrale al massacro. Non pentirsi oggi di quel massacro significa ripeterlo. Sbagliare per eccesso nel conto dei prigionieri da eliminare non significa applicare un’obbedienza riluttante, ma fornire una convinta volontarietà. Non c’è proprio niente da festeggiare, lunedì. Non certo il coraggio. Perché nei personaggi come questo, adesso userò i versi di un poeta ingiustamente dimenticato, «non manca il coraggio di andare avanti, / manca il coraggio di andare indietro, / ritornare dove deviato: / per avanzare davvero».​
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