venerdì 27 dicembre 2013
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Sotto alla pioggia fredda di Santo Stefano una gran folla a ascoltare l’Angelus. Addosso si hanno ancora echi di canti festosi, e bagliori di stelle sui presepi. Ma Stefano è il primo martire, lapidato da uomini che non tolleravano le sue parole. E sentite il Papa: si domanda, Francesco, perché proprio il giorno dopo il Natale la liturgia ne turbi l’incanto, col ricordo di quella prima atroce violenza. Di quell’uomo massacrato di pietre da una folla inferocita, e che tuttavia cade pregando Dio per i suoi nemici. Pregando come Cristo («Padre, perdona loro...»).E dunque la strada fra Betlemme e il Calvario nella trama della liturgia è drammaticamente breve: un giorno, appena. «La memoria del primo martire viene così, immediatamente, a dissolvere una falsa immagine del Natale: l’immagine fiabesca e sdolcinata, che nel Vangelo non esiste», dice Bergoglio. Già, nel Vangelo non esiste. Com’è che invece l’immagine del Natale si è trasformata tanto, si è fatta nella memoria collettiva cara leggenda, ingenua favola che si conta ai bambini e di cui spesso, cresciuti, si sorride?  Forse perché finché si parla di un bambino che nasce, il mondo è disposto a intenerirsi, a commuoversi perfino. Non scandalizza un bambino, non spaventa. Spaventa invece, e sgomenta, la Croce. E nel martirio di Stefano torna lo stesso scontro tra il bene e il male, tra l’odio e il perdono e la violenza, del Calvario. La liturgia, spiega Francesco, «ci riporta al senso autentico dell’Incarnazione». Che non è il semplice nascere di un figlio, ma il farsi carne di un Dio che sfiderà il nostro male fino alla morte, e ne tornerà risorto; con ciò sfondando l’opaca immane barriera che, fino ad allora, schiacciava ogni uomo. Non è fiaba, il Natale. Ma invece il presentarsi di un bambino venuto a rovesciare la storia. E se è comprensibile che coi figli piccoli indugiamo sulla poesia del presepe, da adulti dovremmo sapere che quel primo vagito è in realtà l’inizio della sovversione della storia, com’era stata fino a quel giorno: cieca, nel suo esito di morte. Ma perché allora tolleriamo quel gusto zuccheroso che il tempo ha depositato sul Natale? Forse perché la strada che va da Betlemme al Calvario ci sgomenta; forse perché, in fondo, a tanti di noi cristiani basterebbe vivere in pace, nel senso di senza fastidi e senza pena. Mentre la pace di Cristo è altra, è compagnia in una quotidiana battaglia. Senza arrivare al martirio, anche in Occidente la strada da Betlemme è ripida, e spesso solitaria, e richiede coraggio. Porta inesorabilmente, quella strada, al Calvario; ineluttabilmente porta alla Croce. A un morire a se stessi: nella mite audacia del martirio, o, comunemente, nel silenzio della propria ora estrema, quando il corpo si arrende e resta il fiato soltanto per un “sì” che abbracci la Croce. Nella pace di Cristo – quella vera. Che non è mai fiaba o leggenda. Battaglia, invece, dalla grotta a quel monte. Come insegna la trama antica della liturgia sottolineata dal Papa: da Betlemme al Calvario, un giorno appena. Segno bruciante di un Verbo che nasce al mondo. In quel Bambino, una rivoluzione inaudita.

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