martedì 8 marzo 2016
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Settant’anni fa, il 5 marzo 1946, a Fulton, nel Missouri, Winston Churchill pronunciava uno dei suoi discorsi più famosi, descrivendo con poche, efficaci parole, quanto stava accadendo nell’Europa dell’immediato dopoguerra: «Da Stettino, sul Baltico, a Trieste, sull’Adriatico, una cortina di ferro è calata a dividere il continente».Il leader britannico coglieva lo scenario che andava delineandosi, quello dell’ordine di Jalta, destinato a imprigionare il Vecchio Continente nei decenni a seguire. Qualcuno, ricordando in questi giorni l’anniversario del discorso di Fulton, non è potuto sfuggire al fascino del paragone con l’oggi. Una sorta di nuova "cortina di ferro", fatta di controlli più rigorosi, barriere protettive, fili spinati, muri più o meno alti, che sta spuntando qua e là in Europa, frutto non di una polarizzazione ideologica o di un confronto geopolitico, bensì di spinte nazionalistiche e umorali, e che sfregia il continente non con un solo taglio verticale, bensì con tante diverse ferite. Proprio in quei Balcani che più avevano sofferto del muro di Jalta nuovi muri tentano di bloccare l’ingresso di gente in fuga da una terribile e lunga guerra come quella siriana. Idomeni, tra la Grecia e la Macedonia, dove la polizia dell’ex repubblica jugoslava usa i lacrimogeni per fermare donne e bambini; Morahalom, uno dei mille posti di frontiera dove si è proceduto all’erezione del muro anti-rifugiati voluto dal governo ungherese; l’altissima barriera metallica di Ceuta, enclave spagnola in Marocco; questi e tanti altri centri sono le nuove Stettino, le nuove Trieste, i nuovi checkpoint Charlie, che meriterebbero almeno un po’ di quell’indignazione che si poteva cogliere nel discorso di Churchill.Sì, perché la nuova "cortina di ferro", così come l’antica, produce i suoi morti. Anzi, ne causa di più. Più di 3.500 persone sono annegate nel tentativo di attraversare il Mediterraneo nel 2015, quasi 500 nei primi due mesi di quest’anno. La nuova "cortina di ferro", così come quella disfattasi 25 anni fa, genera dolore, disperazione. Dato che per chi è sopravvissuto alla traversata del mare la prospettiva è la fame, il dormire all’addiaccio o nelle "jungle" di Calais o Dunkerque. Come ha annotato qualche giorno fa Lucio Caracciolo, direttore di Limes: «Gli storici futuri non daranno un giudizio positivo sulla nostra gestione della questione migrazione». Un po’ come facciamo oggi noi guardando ai guasti dell’ordine di Jalta.Eppure sarebbe possibile immaginare e mettere in pratica un altro tipo di approccio. Per evitare un altro anno di morti in mare, l’angoscia dei profughi intrappolati in Grecia, la violenza alle frontiere. Degli esempi di come si possano costruire non dei muri, ma dei corridoi umanitari, dei passaggi sicuri, esistono. Proprio domenica scorsa papa Francesco ha voluto richiamarne uno: «Come segno concreto di impegno per la pace e la vita vorrei citare ed esprimere ammirazione per l’iniziativa dei corridoi umanitari per i profughi, avviata ultimamente in Italia. Questo progetto-pilota, che unisce la solidarietà e la sicurezza, consente di aiutare persone che fuggono dalla guerra e dalla violenza, come i cento profughi già trasferiti in Italia, tra cui bambini malati, persone disabili, vedove di guerra con figli e anziani. Mi rallegro anche perché questa iniziativa è ecumenica».Non si tratta di abdicare al controllo delle frontiere. Si tratta di evitare che una nuova "cortina di ferro" cada sull’Europa, non tenendo conto dei principi ispiratori che hanno dato vita alla Comunità europea proprio nel dopoguerra: pace, solidarietà, certezza del diritto. La risposta dell’Europa a quanto sta accadendo alle sue porte potrebbe essere molto diversa. Una risposta di grande speranza di fronte al disordine mondiale, ma anche di riaffermazione della propria identità umana e solidale. Un sussulto di umanità che farebbe uscire dal malessere triste e disincantato che avvolge tanti Paesi europei attanagliati da crisi di varia natura, e darebbe una nuova speranza, nuova linfa, una stessa misura di legalità e giustizia e un alfabeto comune a vecchi e nuovi europei. Insieme.
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