martedì 22 gennaio 2013
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«We, the people». L’enfasi posta da Barack Obama sulla formula costituzionale – noi, il popolo –, più volte ripetuta nel suo discorso inaugurale del secondo mandato, suona come un appello e come una strategia politica. Il quadro della vigilia non era dei più rosei. Lo aspettano quattro anni che si preannunciano meno sfavillanti di promesse e di svolte rispetto a quanto ci si poteva prefigurare nel gennaio 2009. Il quadriennio della riconferma è stato per i suoi più recenti predecessori più quello degli scandali (da Nixon a Clinton) che quello della "storia" (come vorrebbe il luogo comune). Il quadro politico è conflittuale e incattivito, con i repubblicani per nulla disposti a compromessi facili (soprattutto sul nodo del debito) e gli stessi deputati e senatori democratici in cerca di rinnovo nel prossimo mid term del 2014 timorosi di avere un presidente "fuori sintonia", capace di allontanarli dall’elettorato centrista. Ecco allora l’appello ai suoi elettori – 700mila ieri a Washington, molti meno del 2009 –, per un sostegno più "diretto" e deciso alla sua agenda, riguadagnando quell’entusiasmo che inevitabilmente si è affievolito con alcune delusioni che hanno segnato la sua leadership. Ed ecco la strategia politica, un’affermazione del ruolo dello Stato e un ricorso al favore popolare al di là del Congresso, un populismo moderato che riesca a fare breccia dove altrimenti le sfiancanti battaglie parlamentari limiterebbero la portata del «viaggio» che Obama vuole continuare. È stata quest’ultima l’altra metafora chiave del discorso. Un percorso «non ancora completato» – in realtà, per qualche dossier appena avviato – che riguarda i temi più caldi, e anche controversi, della società americana di oggi: la sanità, l’immigrazione e il controllo delle armi. Per ciascuno di essi, non è per nulla irrilevante la direzione che si prenderà, ma il presidente è stato sui contenuti – come si conviene in queste occasioni – non troppo specifico. Tranne che sul tema coppie gay. Sui vari gradi di attibuzione di diritti "matrimoniali" agli omosessuali, la partita si giocherà a livello dei singoli Stati, ma il capo della Casa Bianca ha speso parole forti non solo per la giusta «uguaglianza» delle persone, ma per l’«uguaglianza» della relazione. Anche sugli altri fronti le sue intenzioni sono peraltro note: salvare (e, se possibile, rafforzare) la riforma dell’assistenza medica; fare qualche passo verso la regolarizzazione dei milioni di lavoratori stranieri da anni nel Paese; provare a limitare davvero la diffusione di almeno qualche tipo di strumento di morte (benché le stragi sempre più numerose non abbiano spostato di molto il favore generale alla libertà di circolare con pistole e fucili). Pure la lotta al cambiamento climatico ha trovato ampio spazio nell’agenda di Obama, nel momento in cui sembrava uscita dall’attenzione generale. Ma quanto (poco) potrà spingere su questo a livello internazionale lo si intuisce dallo spazio davvero ridotto concesso alla situazione internazionale. Quattro anni fa vi fu la "mano tesa al mondo islamico", oggi brevi accenni di prammatica alla difesa della democrazia nel mondo e alla fine di un decennio di conflitti. L’unica "guerra" citata è quella dell’economia: la crisi ha eroso la potenza americana e il presidente potrebbe avere dalla ripresa una grossa spinta per portare a compimento altri obiettivi. Il Nobel per la pace, potenzialmente uno dei maggiori successi del primo mandato, è stato quasi dimenticato. Il richiamo ai valori (compreso quello alla vita) su uno sfondo religioso esplicitamente citato, si declina più in chiave interna, per l’uguaglianza e il sostegno a chi è debole e in difficoltà. Non è forse più tempo di grandi scenari e di grandi ambizioni. Ma è ancora presto per incasellare la presidenza Obama in un grigio declino, come qualcuno vorrebbe già fare.
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