sabato 21 febbraio 2015
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Il lungo duello fra la Grecia e la Germania che si è concluso ieri nelle sale ovattate di Bruxelles con una tregua di quattro mesi – e che ha visto protagonisti il ministro delle Finanze di Atene Varoufakis e il suo omologo di Berlino Schäuble e come arbitri (non sempre imparziali) i presidenti dell’Eurogruppo Dijsselbloem, della Commissione Juncker, della Bce Draghi e del Fmi Lagarde – è qualcosa di più di uno scontro fra un Paese in grave sofferenza sociale e debitoria, prossimo al default e con il rischio di uscire dall’area dell’euro, e una nazione all’apice del proprio fulgore economico e politico, interprete severa e custode di un "rigore" da imporre a ogni costo. Dietro alla disputa sulle cifre, sulle dilazioni di pagamento, sulle riforme da completare, lo scontro vero si è consumato sulle parole, su un territorio semantico antico e radicato per entrambe le culture: di qua c’è la prevalenza germanica della colpa (Schuld), della punizione (Strafe), dell’espiazione (Sühne), di là uno Stato simpaticamente "canaglia" come quello greco, dove la disobbedienza (apèitheia), la frode (apàte), la bustarella (dorodokìa), l’arte di arrangiarsi sono antiche come le cariatidi dell’Eretteo e altrettanto resistenti allo scorrere del tempo. Il compromesso stesso per salvare la Grecia dal precipizio (riforme in cambio di tempo e di un allentamento della morsa dei creditori internazionali) viaggia sulla riformulazione di sostantivi come troika e memorandum, che nell’opinione pubblica ellenica rappresentano la fortezza da espugnare, senza peraltro che cambino davvero i vincoli che tengono Atene incatenata come Prometeo alle sue responsabilità e alle conseguenze degli errori ( e delle malizie) dei suoi governanti. Di suo, l’Unione Europea ha una caratteristica che può rivelarsi decisiva, forse l’unica della sua non sempre onorevole pagella: la predisposizione – per una sorta di macchinosa inerzia – al compromesso, alla chiusura e al superamento dei contenziosi. Accade con la maratona agricola, con l’assegnazione delle quote latte, con la distribuzione degli incarichi di vertice, accadrà anche con la questione greca. «Anche i sostenitori della linea dura come noi devono concedere il beneficio del dubbio a un comunista che indossa una sciarpa Burberry», è la battuta che circolava ieri all’indirizzo del ministro Varoufakis. Il che non ha impedito alla Bce di predisporre – com’è suo dovere statutario – un piano d’emergenza per affrontare l’eventuale uscita di Atene dall’euro.Ma in un’Europa in cui si staglia senza ombra di dubbio l’autorità incontestabile di un grande Paese come la Germania – capace di contagiare con la politica dei "compiti a casa" cara alla signora Merkel non soltanto i primi della classe come Olanda, Austria, Lussemburgo e Finlandia, ma da un po’ di tempo anche le tre Repubbliche baltiche e la Slovacchia, che questi compiti hanno assolto con successo – è necessario un salto di qualità, uno scatto di fantasia che convalidi quella leadership economica e da qualche anno anche politica. Perché ciò accada occorrono un leader, un pensiero, una meta condivisa. Teoricamente, la Germania li possiede già: nella complessa personalità della cancelliera Merkel si condensa quella capacità di mediazione, di fermezza e di lungimiranza (pensiamo solo al ruolo svolto nel tessere la trama complicata e fragile dei rapporti con Mosca) in grado di muoversi fra l’interessata intransigenza dei banchieri di casa e l’insofferenza che l’alleato della Spd comincia a mostrare nei confronti di quella vera macelleria sociale cui è stata sottoposta la Grecia negli ultimi quattro anni.Ora che i forzieri delle banche elleniche sono stati svuotati da una massa di risparmiatori in fuga (dapprima i ricchi, gli armatori, i palazzinari, che hanno cominciato tre anni fa, poi il ceto medio, ora anche il pensionato corre al bancomat a mettere in salvo quello che può), ora che perfino il turismo – unica vera risorsa della Grecia – flette paurosamente, ora che l’improntitudine guascona del giovane Tsipras è costretta a capitolare di fronte al gelido rifiuto dei donatori-creditori, s’innalza ancora più forte l’obbligo morale di salvare la Grecia. E non fingiamo di non sapere che nessuno meglio di Angela Merkel ha i titoli per farlo.
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