lunedì 21 dicembre 2015
COMMENTA E CONDIVIDI
La diagnosi non lasciava spazio ad alcuna speranza. Quel giovane ingegnere brasiliano presentava «otto ascessi multipli cerebrali con idrocefalo ostruttivo». Già sottoposto a trapianto del rene, in sala operatoria, in quel dicembre del 2008, era giunto in coma. Ma quando, con qualche minuto di ritardo, il chirurgo arrivò, trovò il paziente seduto sul tavolo operatorio, cosciente. Agli esami, il male semplicemente non c’era più. Il medico - che si indovina, tra le righe del processo di canonizzazione, ammutolito - ha testimoniato di non avere alcuna spiegazione, per quella totale guarigione.Il miracolo riconosciuto dal Papa all’intervento di Teresa di Calcutta è di "primo grado", quoad vitam, paragonabile a un ritorno in vita per la potenza con cui lo straordinario è intervenuto nell’ordine naturale delle cose, sovvertendolo. Qualcosa che lascia senza parole chi esamina le carte della causa di canonizzazione.Eppure, pensando a quel giorno del 2008, c’è un punto anteriore di stupore, in questa storia. Quell’uomo era dato per spacciato: ma sua moglie non si arrese, e implorò a Teresa un miracolo. Tutto, assolutamente tutto deponeva per l’assurdità di una simile preghiera: non c’era nemmeno uno spiraglio di speranza. E quella donna invece, testarda, osò andare contro le evidenze della scienza, e le risonanze magnetiche, e le Tac, e la parola definitiva dei dottori, e osò chiedere l’assurdo.Così che viene da pensare che Teresa abbia fatto, sì, un miracolo eclatante, ma che altrettanto sbalorditiva sia la fede di quella donna. Perché c’è in molti di noi, quando si prega, un angolo ostinato di incredulità. Domandiamo, perché per educazione cristiana siamo portati a farlo, però tenendo ben ferme le coordinate del possibile e dell’assurdo, circoscrivendo in una gabbia ciò che può o non può essere possibile da Dio.Lo aveva spiegato Francesco in un’omelia a Santa Marta, nel maggio del 2013: i miracoli accadono ancora, aveva detto, ma per consentire a Dio di compierli c’è bisogno di una preghiera coraggiosa, capace di superare quel «qualcosa di incredulità» che alberga nel cuore di ogni uomo. È davvero una questione di cuore: «Credo - aveva detto Francesco - che sia proprio il cuore che non si apre, il cuore chiuso, il cuore che vuole avere tutto sotto controllo».Tutto sotto controllo: gabbie, netti recinti in cui confiniamo Dio, noi che ora conosciamo tante cose, che con tecniche straordinarie vediamo nel minimo dettaglio dentro il corpo di un uomo, e sappiamo bene ciò che può succedere, e ciò che non può. E invece quella donna, cocciuta, sfrontata, ha osato. Viene in mente la madre della fanciulla del Vangelo, cui tutti dicono: «Tua figlia è morta. Perché disturbi ancora il Maestro?». Ma lei piange e grida finché Cristo non la ascolta – e poi, «la fanciulla non è morta, ma dorme».C’è un altro miracolo oltre a quello di Teresa in questa storia, ed è una fede  così. «La preghiera per chiedere un’azione straordinaria – aveva detto a Santa Marta quel giorno Francesco – deve essere una preghiera che ci coinvolge tutti, come se impegnassimo tutta la nostra vita in quel senso. Nella preghiera bisogna mettere la carne al fuoco». Giocarsi tutto, dunque. E se fossimo capaci di farlo nella vita quotidiana? Osando dire: «Vieni», scommettendo il cuore, davvero, buttandolo oltre ogni ostacolo. Per i perseguitati, per i massacrati in silenzio, per quelli che fuggono e annegano, come anche ieri, con il loro bambini nel Mediterraneo, o marciano nei Balcani, nel freddo e nella polvere, contro a frontiere sbarrate; se fossimo capaci, per questa umanità dispersa, di un pregare così - invece che, arresi, cedere all’impotenza e all’abitudine. Il miracolo di Teresa, miracolo quoad vitam, come una stella che si alza nel cielo di questo Natale, sembra una sfida a noi. Sfida a fare, con Dio, come il Caligola di Camus: essere realisti, chiedendo l’impossibile.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: