martedì 7 luglio 2015
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Il giorno dopo il "no" dei greci al referendum è davvero il momento di "sperare contro la speranza". Di ricercare caparbiamente un’intesa nonostante tutto giochi a sfavore e i protagonisti del negoziato si stiano sempre più irrigidendo nelle proprie, inconciliabili, posizioni. Perché un accordo – persino su qualunque base raggiunto – resta la via d’uscita meno dolorosa e meno costosa per tutti. E soprattutto perché, senza un’intesa, non c’è soltanto la prospettiva concreta per la Grecia di finire in un abisso di miseria (peggio di quanto sia accaduto all’Argentina dopo il default), ma c’è il rischio per l’Europa di un’implosione, capace di recidere i legami dell’euro e più ancora di mettere duramente ed effettivamente in discussione l’idea stessa della progressiva unione del continente. Un orizzonte drammatico.Sperare contro la speranza, dunque, nonostante la consultazione tenutasi domenica in Grecia abbia spinto i negoziati in un nuovo vicolo cieco, dal quale sarà possibile uscire solo sparigliando le carte. Se, infatti, si resta alla razionalità, al comportamento suggerito da azioni e reazioni, se il "gioco" resta strettamente in mano ai protagonisti delle scorse settimane, è probabile, come era stato prefigurato su queste colonne da Luigino Bruni, che nessuno si salvi in tempo gettandosi dal finestrino dell’auto in corsa, e che tutti finiscano nel burrone. Un pericolo ben percepibile, ieri, nei tanti paradossi emersi non appena il sole ha rischiarato i risultati della notte referendaria. Da una parte i governanti greci, ebbri di orgoglio nazionale, pronti a rivendicare il rispetto della volontà del popolo con la stessa forza con cui sono tornati a stendere la mano per chiedere altri aiuti urgenti alla Bce (cioè a uno dei soggetti di quella "troika" alle cui regole hanno deciso di contrapporsi frontalmente). Più che l’esaltazione della democrazia, un cortocircuito politico: "mi devi aiutare e alle mie condizioni, non alle tue", è il ruggito del coniglio venuto da Atene, capitale con le banche chiuse e le banconote da 20 euro introvabili. Dall’altra parte ci sono i restanti governanti europei, o meglio si spera ci siano, da oggi in poi. Perché fino a ieri in campo c’erano solo i tedeschi a ribadire i "no" a una nuova base di trattativa, evocando «aiuti umanitari» come a prevedere un incipiente carestia al centro del Mediterraneo. Peggio: la riunione dell’Eurogruppo è stata anticipata da un vertice tra Angela Merkel e François Hollande, plastica rappresentazione di un’Unione a 28 e una moneta comune a 19 nazioni, in cui a contare – a pretendere di contare davvero – sono solo in 2: la Germania e la Francia. Nel senso che decidono i tedeschi, dopo aver ascoltato i francesi. E pazienza per gli altri leader e per i 17 Paesi più o meno satelliti, Italia (sempre più sfidata) e Gran Bretagna (sempre più defilata) comprese. Se l’Unione Europea intendeva offrire un’immagine diversa dal plebiscitarismo greco, ci è riuscita perfettamente, ma a prezzo di riconfermare l’idea che un’oligarchia renana (anche ora che la capitale tedesca è tornata a Berlino) regge una Comunità di Stati che deve essere ricominciata.Sperare contro la speranza, dunque. Provando a fare una "mossa del cavallo", uno scarto di lato, esercitando la capacità di cambiare prospettiva e rappresentare una visione diversa per ripartire in avanti. I nodi sui quali si è arenata la trattativa sono fondamentalmente tre: la riduzione del debito chiesta da Atene e rifiutata dagli europei; le riforme della tassazione e di parte del welfare proposte dalla "troika" e rigettate dal governo Tsipras. Se davvero si vuole trovare un compromesso che rimetta in ordine di priorità i popoli prima della moneta e la capacità politica prima delle teorie economiche (difese oggi fideisticamente come le ideologie del passato) si potrebbe pensare a un compromesso basato su uno scambio.Parte del debito – ad esempio la rata che Atene deve pagare alla Bce entro il 20 luglio – viene trasformata in eurobond, con un’emissione da piazzare sul mercato interno ed esterno alla Ue, garantita dalla Bce.Dall’altra parte, Atene si impegna a presentare e implementare un piano di rilancio dell’economia con proprie misure, ma con una clausola di garanzia automatica basata sulle richieste della "troika": se entro un anno la maggior crescita non determina un surplus con il quale iniziare a ripagare il debito e gli eurobond, si procederà con la "cura" integrale ipotizzata dai creditori.Si tratterebbe di un passo oltre tutte le rigidità, utile anche per iniziare a sperimentare forme di ristrutturazione e riduzione dei debiti pubblici, che nell’Unione opprimono non solo la Grecia. Un modo per evitare sia sterili involuzioni tecnocratiche sia pericolose derive populiste, salvando invece i tre princìpi cardine di autodeterminazione, sussidiarietà e solidarietà che sono alla base del sogno europeo. Per continuare a sperare in un’Europa delle persone. Oggi è difficilissimo, ma non è impossibile.
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