venerdì 5 luglio 2013
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Il «golpe popolare», come è stato definito ieri da Antonio Ferrari il pronunciamento con cui i militari egiziani hanno deposto e arrestato il presidente Mohamed Morsi, avrà probabilmente conseguenze che andranno ben oltre i confini del grande Paese nilotico. Le ragioni, ancor più delle modalità, che hanno portato all’allontanamento di Morsi dal potere potrebbero essere decisive nel segnare il ridimensionamento dell’islam politico: parliamo della patente incompetenza di classi dirigenti addestrate, quando va bene, alla gestione delle opere pie islamiche – una sorta di welfare state alternativo a quello pubblico – e del fallimento complessivo dell’idea semplicistica e fuorviante che l’islam sia «la soluzione» a qualunque problema affligga le società contemporanee. Un conto è far funzionare organizzazioni anche capillari potendo contare sull’attivismo, sullo zelo e sulla militanza identitaria. Ben altra cosa è far camminare la macchina dello Stato e governare una società e un’economia. È prematuro affermare che con il fallimento dell’esperimento egiziano, l’islam politico sia finito. Più probabilmente ha iniziato un declino o, meglio, si è dimostrato ancora una volta che ovunque nel mondo – come i cristiani e, soprattutto, i cattolici hanno capito da un pezzo – mischiare religione e politica, fede e amministrazione sia un "cul de sac". Spingendosi un po’ più avanti nelle ipotesi, si può anche arrivare a prospettare che – come è già successo altre volte in passato – l’islamismo politico si sgonfierà progressivamente, continuando ad attirare alcune frange minoritarie di popolazione (magari, malauguratamente, nelle sue declinazioni più violente) ma perdendo fascinazione rispetto alle maggioranze. Non è un caso che tra i più alti cori di denuncia nei confronti del "golpe" si siano levate quelle dei sauditi e dei qatarioti – grandi mentori dell’associazione tra islam e politica in tutto il Medio Oriente – e la Turchia di Erdogan, al quale devono essere fischiate le orecchie (e parecchio) di fronte allo spettacolo di generali che intervengono per completare l’opera iniziata dalla folla e cacciare gli islamisti "moderati" dai palazzi del potere. Più imbarazzate sono apparse invece le risposte delle diplomazie occidentali, a cominciare da quella americana, che si ritrovano "piacevolmente spiazzate".Agli occidentali i Fratelli musulmani e l’islamismo politico in generale non sono mai piaciuti: troppo lontano dalla concezione laica dell’Occidente moderno lo spettacolo estetico e la panoplia di simboli e idee dei "barbuti". D’altra parte, particolarmente in Egitto, Washington aveva investito fin da prima della rivoluzione sulla Fratellanza, provando ad attrarre nella sua orbita i vertici dell’organizzazione, senza peraltro mai smettere di blandire e coltivare le gerarchie militari. Ora che le seconde scaricano i primi, anni di investimenti e contorsionismi logici e ideologici vanno a gambe all’aria, non senza aver prima creato un possibile danno regionale di dimensioni ancora indefinibili.Proprio sull’onda dell’apertura al mondo islamico e all’islam politico "moderato", portata avanti dal presidente Obama in questi anni e rafforzata dopo le primavere arabe, l’America aveva delegato alla Turchia di Erdogan e agli alleati del Qatar e dell’Arabia Saudita una parte crescente della propria azione nella regione. Appena pochi giorni fa Washington, a rimorchio di Parigi e Londra, aveva deciso di armare i ribelli siriani, come del resto Qatar e Arabia Saudita stavano facendo da tempo. Nella lotta contro la dittatura di Assad, le differenze nelle prospettive e nei disegni tra le ricche monarchie conservatrici e le democrazie occidentali sembravano attenuarsi (secondo la logica per cui nella notte più buia tutte le vacche sono grigie). Ma il defenestramento di Morsi fa riemergere in maniera abbagliante differenze che sono tutt’altro che minori e pone un interrogativo di carattere etico e politico: se la maggioranza del popolo egiziano rifiuta il modello proposto dall’islamismo, possiamo affermare con sicurezza che anche la maggior parte dei siriani, pur volendo la fine del regime di Assad, abbia intenzione di ritrovarsi sotto il tallone di islamisti (e ancor più radicali)? E chi siamo noi per determinare un esito siffatto attraverso il nostro sostegno ai ribelli?Paradossalmente, è nel Levante – in Siria e in Libano – che la sollevazione anti-islamista del popolo del Cairo e dell’esercito egiziano potrebbe portare a un rimescolamento di alleanze e a una rivalutazione di prospettive tutta da seguire con estrema attenzione e con qualche preoccupazione.
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