venerdì 31 gennaio 2014
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Il nuovo accordo fra Matteo Renzi e Silvio Berlusconi, che ha modificato alcuni punti qualificanti della bozza di legge elettorale, contiene novità importanti, di cui si può tentare una prima valutazione evidenziando soprattutto i punti che possono essere perfezionati. L’ottica con cui guardare a esse non può essere che quella delineata dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 1 del 2014: vale a dire la ricerca di un equo contemperamento fra i due princìpi della rappresentatività e della stabilità di governo, che devono essere armonizzati fra loro, cosa – va da sé – tutt’altro che facile e possibile comunque solo in maniera parziale. La principale modifica concerne l’innalzamento dal 35 al 37% della soglia al di sopra della quale scatta il premio di maggioranza, e al di sotto della quale si procede invece a un secondo turno nazionale limitato ai primi due partiti o alle prime due coalizioni. Si tratta senz’altro di una modifica positiva, che resta tuttavia insufficiente, anche perché non prevede una distanza minima fra il primo e il secondo partito (prevista, per esempio, dalla legge argentina sulle elezioni presidenziali): in tal modo un partito che ottenga il 37% precedendo un altro col 36, conquisterebbe la maggioranza assoluta dei seggi con poco più di un terzo dei voti. Quella soglia, invece, andrebbe portata al 40% e anche oltre, integrata con il requisito di una distanza minima del 5% fra primo e secondo "classificato", lasciando negli altri casi la decisione al secondo turno elettorale, nel quale una nuova scelta degli elettori legittimerebbe più chiaramente la coalizione vincitrice. Non meno importante è la revisione delle soglie di sbarramento per l’accesso alla ripartizione dei seggi. Qui il dato più negativo è il permanere dello sbarramento all’8% per le liste non coalizzate, dunque a livelli degni della Russia di Putin o della Turchia Erdogan, non certo delle democrazie più avanzate. È invece stata ridotta la soglia di sbarramento per le liste coalizzate, che scende dal 5 al 4,5% ed è accompagnata da una correzione (cosiddetto salva-Lega) che consente l’accesso in Parlamento alle forze che ottengano il 9% in almeno tre regioni. Al riguardo si deve apprezzare la flessibilizzazione di una regola troppo rigida, ma vi è anche il rischio – a fronte della probabile esclusione di forze nazionali anche significative a causa dello sbarramento all’8% per i non coalizzati – di privilegiare indebitamente partiti territoriali, il cui "posto" sarebbe piuttosto l’evocato Senato delle autonomie e non la Camera dei deputati. Questo groviglio di soglie ricorda, inoltre, il Porcellum ed è probabile che non sia sorretto da giustificazioni ragionevoli e quindi sospetto di incostituzionalità. Un sistema così costruito potrebbe incentivare la formazione di coalizioni eterogenee, sia perché, per i partiti piccoli, si abbassano le soglie di sbarramento se entrano in una coalizione, sia in quanto vi è un incentivo implicito a presentare liste civetta (Forza Roma, Forza Lazio e così via) per raccogliere briciole di consenso che non darebbero mai rappresentanza, ma potrebbero consentire di superare la soglia di accesso al premio di maggioranza. I dati più preoccupanti del nuovo testo sono, però, altri due. Il primo è la reintroduzione della possibilità delle candidature multiple, cioè in più di un collegio: e la Corte costituzionale aveva additato questo elemento come concausa della difficoltà per gli elettori di controllare le candidature, che aveva condotto all’incostituzionalità delle liste bloccate nella legge n. 270/2005. Si tratta di una pessima scelta, che, se non verrà corretta, permetterà ai capi partito di candidarsi in tutte le circoscrizioni e, una volta eletti, di scegliere quella che rappresentano (così determinando quali dei numeri due e tre delle liste entreranno in Parlamento). Resta, poi, il silenzio sulle liste bloccate. E questo è il secondo, pesante, punto: la bozza di legge elettorale continua a esibire lo stesso deficit di democraticità che ha caratterizzato il sistema che l’aveva preceduta e che la Corte costituzionale ha ritenuto di dover correggere. Insomma, chiunque si rende conto che la cruciale "intesa tra avversari" che sta alla base di questo percorso di riforma non potrà essere stravolta nei suoi capisaldi, pena il fallimento di una preziosa occasione per ridare equilibrio al nostro sistema politico-istituzionale e al rapporto elettori-eletti, ma è evidente il Parlamento ha seri motivi per non limitarsi a una pura e semplice ratifica del testo di partenza.
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