venerdì 4 ottobre 2013
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«Venga a contare i morti con me»: poche parole, com’è giusto in un telegramma. È il messaggio che il sindaco di Lampedusa, Giusi Nicolini, ha inviato ieri al presidente del Consiglio Enrico Letta, mentre il molo dell’isola era ricoperto dai cadaveri di un naufragio orribile, mentre i soccorritori piangevano, mentre chi guardava il mare sapeva di guardare un cimitero. «Basta con la conta dei morti», diceva nello stesso momento l’arcivescovo di Agrigento, monsignor Francesco Montenegro.Si riferiva a quella che papa Francesco ha definito, senza mezzi termini, «una vergogna». Ed è difficile non pensare che meno di ventiquattr’ore prima l’Italia era inchiodata davanti alla tv per seguire un conteggio di tutt’altro tipo: quello dei voti parlamentari che avrebbero o non avrebbero confermato la fiducia all’esecutivo. Nella convulsa giornata di mercoledì era stato lo stesso Letta, in un passaggio del suo discorso a Montecitorio, a richiamare il dramma dell’immigrazione, facendo proprio l’invito a «combattere la globalizzazione dell’indifferenza» lanciato dal Papa durante la visita a Lampedusa dello scorso 8 luglio. Monito sacrosanto, al quale, nella concitazione del momento, si è dato scarsissimo rilievo. Il punto è che la situazione sembrava già abbastanza grave, con il governo in bilico, e i mercati internazionali pronti ad approfittare dell’instabilità italiana, e l’Iva aumentata di un punto, e ogni altro possibile dramma che, come sempre dalle nostre parti, tende irresistibilmente a stingere in commedia. Noi eravamo lì, appesi alla partita doppia della politica, e sull’altra sponda del mare, in Libia, c’era una nave che si caricava di profughi eritrei e somali. Anime in fuga, che stavano per consegnarsi a un’altra conta, quella che il sindaco Nicolini non vuole più tenere da sola. Meglio: che a nessuno può più essere richiesto di tenere in solitudine. Il voto dell’altro giorno, si è detto, dà un’altra occasione alla politica. Sì, ma per che cosa se non per impedire che una tragedia come quella di ieri possa ripetersi? Di quanta realtà ha ancora bisogno il nostro Paese per tornare a praticare la virtù dell’umanità e del realismo? Un molo allungato nel Mediterraneo, questo è l’Italia. Perché la geografia, prima ancora della storia, ha scelto per noi. E un molo, ammettiamolo, è un luogo bellissimo, a meno che non venga deturpato dalle immagini che per tutta la giornata di ieri si sono susseguite davanti ai nostri occhi. Un molo è il punto in cui un viaggio finisce e un altro comincia, è un’opera dell’uomo che si allea con la natura. Non è più mare e non è ancora terra. È dove si inizia a dialogare, se si sceglie di accogliere lo straniero. Ma è anche l’avamposto della battaglia, se invece si preferisce combatterlo. L’alternativa, a questo punto, non può più essere rinviata ed è inutile – oltre che colpevole e patetico insieme – rifugiarsi nel meccanismo dell’invettiva localista, come purtroppo alcuni rappresentanti della Lega hanno ritenuto opportuno fare ieri, forse nella speranza di un’estrema chiamata al consenso. Un molo non è la città, ma la città ne ha bisogno. E se il molo è l’Italia, la città è l’Europa, tempestivamente chiamata in causa dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e tempestiva, per una volta, nel rispondere all’appello. Per ora a parole. La commozione del momento è forte, ma non occorre essere cinici per sapere che passerà. Alla politica, appunto, tocca il compito di pensare con lucidità anche in circostanze come questa. Dovere ingrato, come quello della conta. Ma adesso, qui sul molo d’Europa, dobbiamo assumerci il rischio di osare qualcosa di grande.
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