mercoledì 6 maggio 2015
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Anche la nostra generazione di uomini e donne occidentali così civili, così politicamente corretti, così attenti a ogni possibile declinazione della parola "libertà" porterà il peso, davanti al tribunale della storia, di gravi crimini contro l’umanità. Crimini compiuti nella nostra indifferenza e persino con la nostra complicità, più o meno consapevole, più o meno politicamente calibrata, ma reale e pesantissima, perché nessuna distruzione e nessuna ingiustizia sono mai inevitabili. I crimini che si stanno commettendo nel nostro tempo, al nostro cospetto, hanno volti e nomi di vittime precise, uomini e donne come noi, bambine e bambini come le nostre figlie e i nostri figli. Sì, si tratta di persone come noi, e in genere appartenenti a quella vastissima parte del pianeta che chiamiamo "Sud del mondo" e che, in realtà, è ovunque: a sud, certamente, ma anche a est, a ovest, e persino a nord delle nostre città e dei nostri giorni. I loro sono i volti (indistinti, il più delle volte) e i nomi (impronunciati, quasi sempre) di chi è perseguitato per la propria fede o per la propria idea politica, e di tutti i poveri che fatichiamo a guardare negli occhi: i senzapace, i senzaterra, i senzapane, i senzacqua, i senzagiustizia, i senzafuturo.Ma ci sono luoghi e momenti nei quali la violenza disumana del crimine e la crudeltà dell’indifferenza diventano del tutto insopportabili proprio perché possono essere fermati, possono essere capovolti in atti di umanità, di civiltà, di giustizia. Oggi uno di questi luoghi, anzi il luogo per eccellenza del dolore e della cattiva coscienza del mondo, è Aleppo. Lo è da quasi tre anni. Tre lunghissimi anni che hanno travolto e sconvolto quella che era la più popolosa città della Siria, forse l’ultima grande "capitale" cosmopolita, multietnica e multireligiosa, nell’area orientale del Mediterraneo. Dovremmo tremare all’idea di ciò che tra cento anni, o anche solo tra vent’anni, si scriverà di noi – gli inerti – e dei massacratori di questa città-simbolo e del suo popolo. Ma dobbiamo tremare per ciò che già oggi non vogliamo vedere e invece possiamo vedere, per ciò che non scriviamo (o non scriviamo abbastanza) e invece dobbiamo scrivere, per ciò che non facciamo da cittadini dei nostri Paesi e del mondo per scuotere quelli che hanno potere e invece potremmo fare per indurli a usare il loro potere e la loro diplomazia e a far finire almeno questo scempio.Non possiamo accontentarci di "non far crescere di più" la guerra di Siria, la terribile guerra civile di Siria. Certo, sappiamo quanto sia difficile farla finire, e tanto più ora che s’è inestricabilmente legata alla vicenda dell’autoproclamato Stato islamico, ma sappiamo anche che le guerre finiscono solo quando cominciano i gesti di pace. E il rapporto che "Amnesty International" ha pubblicato ieri, aggiungendo dati impressionanti a un quadro fatto più completo dalle informazioni e dalla testimonianze raccolte da altri osservatori autorevoli e imparziali, sottolinea quanto sia urgente fare di Aleppo il primo di questi gesti di pace. Andrea Riccardi, storico e uomo di fede e di pace, lo chiese con voce accorata e forte nel luglio dell’anno scorso e alla sua voce se ne sono via via unite altre. Molte, e non ancora abbastanza. Si continua a chiedere che Aleppo diventi una sorta di «città aperta».Così deve essere e così può essere. È possibile impegnare il mondo e "costringere" le parti in guerra ad aprire corridoi umanitari. È possibile far tacere le armi. È possibile fermare la distruzione. È possibile ascoltare la sofferenza, la fame e la sete della gente innocente. È possibile pretendere la ricostruzione di una città che fu splendida per il suo tessuto urbano e per la convivenza tra cittadini differenti e uguali, affratellati da una cultura del rispetto costruita con sapienza e pazienza. Aleppo non può diventare il simbolo di una devastante sconfitta dell’umanità. Chi lo permette ne è il responsabile. E noi non possiamo ignorare la parte che ci spetta.
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