giovedì 21 novembre 2013
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​Ai governanti italiani che negli anni 70 e 80 visitavano gli Usa, la stampa americana rivolgeva ogni volta una domanda: «Come fate, voi italiani, a cavarvela meglio degli altri in tempi di crisi»? Giulio Andreotti rispose: «Ci salva l’economia sommersa». I giornalisti risero e non vollero rovinare quella che sembrava una battuta. Andò peggio a Craxi. Alla solita risposta, gli obiettarono: «Intende riferirsi alla mafia»? I nostri rappresentanti, in realtà, avevano ragione. Sapevano che, nei momenti di difficoltà, almeno 15 milioni di italiani erano capaci di fare un passo indietro e trovare una fonte di reddito in una proprietà agricola da poco abbandonata o in una abilità artigianale non ancora perduta. Negli ultimi trent’anni, i cambiamenti della cultura economica hanno quasi del tutto cancellato il rapporto produttivo con la terra e le professionalità autonome. È così aumentata la fragilità del nostro sistema sociale. Ha detto bene un medico greco intervistato qualche mese fa: «Ci vuole del talento per vivere da poveri e questa abilità, una volta perduta, non si reimpara dalla sera alla mattina». Oggi, neppure in Italia siamo più capaci di fare «un passo indietro» e l’impoverimento assume immediatamente il suo aspetto più crudo. È per questo che, prevedendo quali sarebbero stati i risultati, non mi sono mai entusiasmato di proclami del tipo: «Faremo pagare le tasse su ogni attività, anche la più piccola». Non perché tifassi per gli evasori, ma perché, se tutto diventa mercato, non solo la massaia non sarà più capace di «preparare gli agnolotti», come scriveva Ivan Illich in un saggio famoso, ma perché in questo modo si azzera nel popolo la possibilità di una difesa creativa contro gli errori della politica e della finanza. Se al cambiamento negativo della cultura si aggiunge la follia della legge, il disastro è completo. Prendete il Testo Unico Ambientale n.152 del 2006. Vi si dice che i residui vegetali provenienti da sfalcio e potatura sono «rifiuti» e pertanto non si possono accumulare né bruciare. Anche perché, avverte un avviso del Comune di Zermeghedo (Vicenza), «recenti sentenze della magistratura ordinaria» sostengono che le ceneri ricavate dai residui vegetali non sono un concimante naturale: l’idea «non trova riscontro nelle tecniche di coltivazione attuali». I media progressisti si spellano le mani ad applaudire le agricolture aristocratiche ed esoteriche, quelle, per intenderci, dove «ex architetti, bancari, pubblicitari, avvocati e ingegneri» producono frutta immangiabile da vendere ad architetti, bancari e pubblicitari, come ho letto di recente.

Ma se sfalcio un campo abbandonato da anni e accumulo o brucio le stoppie sono denunciato penalmente. E se voglio recuperare un uliveto? Attento: se qua e là spuntano dei lecci, è questa specie «naturale» che deve avere la prevalenza sull’ulivo domestico. I boschi, lo dicono tutte le ricerche recenti, stanno estendendosi con grande velocità, ma se sulla montagna ligure vuoi costruire un garage nel punto di minore impatto e, disciplinatamente, hai chiesto di poter togliere due ceppaie di castagno, al limite di un castagneto che sta resistendo a cancro, inchiostro e cinipede cinese, nossignore: devi rifare il progetto con spese insostenibili. È in questo quadro che i miei amici Sabrina e Michele, venendo da Milano, hanno messo su casa alla Lissa di Varese Ligure. E ora è nato Francesco, uno dei dieci nuovi nati annuali del Comune (contro i circa 80 decessi). Grande gioia e speranza del futuro. Ma dopo gli auguri di benvenuto, anche Francesco vorrebbe che non chiudessimo gli occhi sui veri problemi.

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