giovedì 12 settembre 2013
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Dovremmo avere una capacità di rappresentazione: riuscire a trasformare, con una sorta di transfert immediato, i numeri, nella loro freddezza e impersonalità, in immagini di volti, di corpi che raffigurano gli stenti, la fame e la morte, per comprendere davvero, in tutta la loro drammaticità, gli ultimi dati sullo spreco alimentare forniti dalla Fao. Leggiamoli e immaginiamo – per ogni dato offerto dal rapporto "L’impronta del cibo sprecato" – il volto di una persona che muore per fame o è malnutrita e che non abita necessariamente in un Paese lontano. Il primo dato provocherà allora un brivido: l’eccedenza alimentare costa ogni anno, in termini economici, 750 miliardi di dollari (quanto il Pil della Svizzera e della Turchia), e lo sgomento continua: 1,3 miliardi di tonnellate di cibo viene buttato. Soltanto questi due dati dovrebbero turbare e scandalizzare e farci vincere l’indifferenza, come sono capaci di fare i santi: «Quello che mi scandalizza non sono i ricchi e i poveri – diceva Madre Teresa di Calcutta –: è lo spreco». Reagì con questa parole dopo un viaggio in Etiopia, dove aveva visto l’impronta dello spreco. I numeri della Fao lo quantificano, ma i volti lo rappresentano, sono la sua impronta. E i volti sono tanti, sono troppi. Al mondo 870 milioni di persone soffrono la fame.La Fao parla di più impronte, non di una sola, perché tale sciupio genera una catena perversa e immorale che offende l’uomo e il creato. La catena alimentare nella natura ha, o forse aveva, un che di virtuoso. Non è più così. Oggi il dispendio di cibo depaupera le risorse idriche, incide sul clima, avvilisce la terra. Ogni anno il cibo prodotto, ma non consumato, sperpera un volume di acqua pari al flusso annuo di un fiume come il Volga; utilizza 1,4 miliardi di ettari di terreno e lo avvilisce, perché la coltura intensiva diminuisce la fertilità e induce a utilizzare fertilizzanti. E questo si ripercuote sull’aria che respiriamo, essendo responsabile della produzione di 3,3 miliardi di gas serra.Le cause di questa dissipazione sono oggetto di studio, perché è da qui che si possono immaginare i rimedi. Nel mondo industrializzato siamo noi consumatori i principali responsabili perché compriamo e poi buttiamo ciò che non mangiamo. Cultura dell’opulenza? Ostentazione del benessere? Nel Paesi in via di sviluppo, invece, gli sprechi sono dovuti a un’agricoltura poco efficiente o alla mancanza di modalità di conservazione adeguate. Lo spreco è dunque inserito in una catena alimentare non più virtuosa, e ogni anello della catena – è anche l’invito della Fao – dovrebbe adoperarsi per spezzare questo meccanismo impazzito. Riutilizzare e riciclare, sono le parole d’ordine per i consumatori. Ma tanto e di più può fare l’industria alimentare, invitata – finalmente – a chiare lettere a donare quello che non può più vendere, quanto sta per marcire e dovrà essere buttato via.Nella cultura dell’abbondanza anche il donare potrebbe avere un costo che si aggiunge al valore delle cose donate. Però tra lo sperpero e quei milioni di persone che con la loro fame ne sono un’impronta, esistono e fanno da interfaccia, non da oggi, i banchi alimentari. Sono loro, con le migliaia di volontari che le sostengono, il tramite tra il superfluo e il necessario. Consentono di sfamare gli affamati. Senza pagare quel pane superfluo che, se sprecato e buttato, sarebbe pagato due volte. Lo comprendono quanti credono nella sacralità nel pane, più che nel suo valore economico. E lo avevano bene in mente i nostri padri che pure non hanno mai letto Predrag Matvejevic, lo scrittore croato che riflette sul pane quotidiano. Poi questo pane conservato, fino a diventare immangiabile, si buttava via, ma le nostre mamme prima di farlo lo baciavano. Oggi buttiamo 750 miliardi di dollari di cibo. Senza baciarlo. Non è soltanto uno spreco. È una bestemmia.
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