mercoledì 27 giugno 2012
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La Turchia gonfia i muscoli, ammonendo che «risponderà a qualsiasi violazione delle sue frontiere», e ottiene il massimo sostegno possibi­le da parte della Nato che, per bocca del suo se­gretario Rasmussen, non si è limitata a definire «i­naccettabile » l’abbattimento del cacciabombar­diere turco da parte dei siriani (come già aveva fat­to la Ue il giorno prima), ma ha tenuto a sottoli­neare: «La sicurezza dell’Alleanza è indivisibile, siamo al fianco della Turchia con fermo sostegno e spirito di grande solidarietà». In due giorni, la Turchia ha incassato un appoggio totale da Unione Europea e Alleanza Atlantica: un successo non così scontato, se solo si ricorda che l’ultima volta che Ankara chiese e ottenne la con­vocazione straordinaria del Consiglio del Nord A­tlantico fu in occasione dell’abbordaggio da par­te israeliana della Freedom Flottilla , partita dalle coste turche con l’intento di violare il blocco di Ga­za. Allora, di fatto, il Consiglio condannò la Turchia ed espresse solidarietà a Israele... Il premier Erdogan può dunque rallegrarsi della vittoria diplomatica conseguita, tanto più per l’as­senza di un reale ammonimento a mostrarsi «più prudente» nel suo patronage dell’opposizione al regime di Bashar Assad, fino a pochi mesi orsono, ricordiamocelo, trattato con amicizia e conside­razione dal governo turco. Se non è un esplicito ri­conoscimento delle aspirazioni regionali della Tur­chia, poco ci manca. Detto questo, occorre sgombrare il campo da qual­siasi equivoco: nonostante i moniti e la conse­guente revisione delle regole di ingaggio ai confi­ni, Ankara non desidera un’escalation militare; non la desidera certo Damasco, e nessun Paese della Nato ha intenzione di essere coinvolto in un con­fronto con la Siria dalle conseguenze imprevedi­bili. Come è stato più volte ribadito, il precedente libi­co è inapplicabile: non solo perché proprio l’ap­poggio attivo alla resistenza di Tripoli ha messo impietosamente in luce i limiti e l’affaticamento della macchina militare dell’Alleanza (usurata da oltre 10 anni di guerra in Afghanistan); ma anche per una considerazione politico-geografica molto semplice. La Siria non è la Libia: se quest’ultima rappresentava una sorta di vicolo cieco del siste­ma mediterraneo – tale da impedire che le conse­guenze di quanto avvenisse nel Paese potessero avere effettive conseguenze nella regione –, Da­masco è invece un vero hub strategico. Le ambi­zioni iraniane, turche esaudite, l’irrisolto conflitto arabo-israeliano, il precario equilibrio del Libano, le aspirazioni russe a un ruolo mediorientale: tut­to questo fascio di relazioni passa attraverso la Si­ria. Al quartier generale della Nato sono peraltro piut­tosto preoccupati della piega che l’internaziona­lizzazione della crisi siriana potrebbe prendere. Certo, «internazionalizzare la crisi» ha rappresen­tato il mantra che l’Occidente e l’Onu hanno con­tinuamente recitato in questi mesi. In tale dire­zione vanno interpretati tanto l’invio (fallimenta­re) degli osservatori Onu per la «verifica del rispetto della tregua» (sic) tra regime e insorti, quanto la missione complessiva di Kofi Annan. Ma l’auspi­co di una internazionalizzazione della crisi siria­na non ha mai voluto alludere a un intervento mi­litare o all’ipotesi di sovrapposizione di un con­flitto regionale a quello civile in corso. Nelle ore immediatamente successive all’inci­dente, fonti dell’opposizione siriana hanno anche ventilato l’ipotesi, che l’abbattimento del Phan­tom turco potesse essere stato realizzato dalle bat­terie missilistiche russe poste a protezione della base di Tartus. Si tratta di voci quasi certamente pri­ve di fondamento, che però rivelano un fatto no­to: Mosca non consentirebbe un’azione militare contro il suo imbarazzante alleato, nep­pure se questa avvenisse nella forma di escalation di scontri di confine. Per quanto possa turbarci l’assistere im­potenti al quotidiano carnaio siriano, la comunità internazionale è sostanzial­mente impotente – perché divisa – e sol­tanto dall’interno della Siria potrà arri­vare la soluzione a una guerra civile che, anche per questo, si preannuncia anco­ra lunga e sanguinosa.
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