domenica 22 settembre 2013
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Come non pochi sardi ho dei parenti in Argentina. Tanti anni fa una zia di mia madre è emigrata là con la famiglia, da uno dei nostri paesi. Si tratta d’un caso tutt’altro che raro: la Sardegna era – e temo rischia di rimanere – terra di emigrazione. E questa emigrazione, in una certa epoca, ha avuto tra le mete preferite l’Argentina; lo testimoniano le numerose associazioni di sardi argentini, vive anche su internet. Quindi con Papa Francesco, che viene pure lui da una famiglia italiana di emigrati in Argentina, siamo un po’ parenti; o se non siamo parenti, abbiamo qualche tratto di storia in comune: che ce lo fa sentire ancora più vicino. Per esempio la musica del suo modo di parlare suscita in me la strana nostalgia delle lettere che ci arrivavano nel dopoguerra dalla figlie di zia Rita: sempre col vocativo "Querida" all’inizio e poi scritte in una lingua che era un buffo impasto di spagnolo e italiano. Mia madre, rimasta orfana a meno di tre anni, era stata allevata anche da quella zia: e conservava verso di lei – donna, ci ripeteva, di bontà e dolcezza indimenticabili – un grandissimo affetto.Non credo che il Papa venga da noi in Sardegna per portarci i saluti di zia Rita (chissà, poi…): ma certo vuole visitarci, anteponendoci ad altri, anche per il nostro antico destino di terra d’emigrazione e per la nostra attuale spaventosa precarietà. Che ci rendono bisognosi d’una particolare raccomandazione alla Madonna. Noi ce la siamo scelti come protettrice della nostra isola, la Madonna: col predicato di Bonaria. E non è un caso che Buenos Aires sia la traduzione di Bonaria. Questo di Papa Francesco è dunque anche un piccolo ritorno. E nel ritorno c’è un segno della sua vita: vissuta per intero dalla parte dei deboli; e ora, nel Magistero cui lui è chiamato, coerente a quella scala di priorità (che è il cuore della carità cristiana). Sì, ha un senso preciso che il Papa, dopo Lampedusa e i suoi disperati, dopo Rio e le sue <+corsivo>favelas<+tondo>, arrivi in Sardegna. Tutta l’Italia (e non l’Italia soltanto) sta soffrendo una terribile crisi: ma qui da noi la crisi si è accentuata oltre il sopportabile. E Papa Francesco viene a incontrare i padri e le madri di famiglia che hanno perso o stanno per perdere il lavoro, i figli ormai adulti, spesso non da poco tempo, che il lavoro non sono mai riusciti a conoscerlo di persona. Viene a incontrarli, a incontrarci, per portarci la sua parola di speranza.
È una speranza che sta innanzi tutto nella preghiera: nella sua preghiera per noi, alla nostra Madonna. E poi subito sta nella predilezione che lui ci dimostra, in nome della nostra difficile storia, del nostro difficile presente, tali da assegnarci una identità singolare, unica. Non vogliamo perderla questa complessa, faticata identità, né vogliamo perdere la dignità umana: perciò bisogna che la Sardegna diventi terra dove si producono in giusta misura i beni della vita e dove tutti lavorano. In modo che non soccombano nella confusione del malessere i valori vecchi e nuovi che devono renderci uomini e donne del nostro tempo.
Dipende molto da noi sardi, è vero; ma molto non dipende da noi. Il Papa ci sta aiutando: non solo con la sua preghiera, anche con la sua scelta di mettersi dalla nostra parte. Lui non fa politica: ma la sua lezione rivolta alle anime chiama la politica alle responsabilità di cui è carica. A quelle più vere, di fondo: consistenti nella difesa privilegiata, a oltranza, senza sconti, degli interessi dei poveri e dei piccoli.
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