martedì 23 giugno 2015
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Spinto da quell’Amore che ricrea e «fa nuove tutte le cose», compresi i rapporti ecumenici, il Papa ha compiuto ieri a Torino un gesto storico assimilabile ai grandi mea culpa con cui san Giovanni Paolo II aveva scandito il percorso di avvicinamento al grande Giubileo del 2000. Anche in questi mesi un Anno Santo si profila all’orizzonte della Chiesa, e proprio per volere di Francesco. E perciò la prima volta di un Vescovo di Roma in un tempio valdese, l’ammissione dei «comportamenti non cristiani, persino non umani» tenuti dai cattolici verso gli stessi valdesi e la conseguente richiesta di perdono – notazioni che hanno profondamente commosso i suoi ospiti – appaiono perfettamente coerenti con il messaggio di misericordia e riconciliazione che è al cuore di questo Pontificato e che hanno illuminato anche la visita nel capoluogo piemontese in occasione dell’ostensione della Sindone.Sono stati due giorni densi di appuntamenti e di temi dai quali non una sola parola o un singolo gesto possono essere tenuti in minor conto o addirittura scartati. E tuttavia la sosta nel tempio di Corso Vittorio Emanuele II – il più antico tra quelli costruiti al di fuori delle Valli Valdesi, dopo la concessione dei diritti civili da parte di Carlo Alberto nel 1848 – viene a incastonarsi come una gemma di inestimabile valore nel già preziosissimo diadema del viaggio. Al significato del gesto in sé, al nuovo traguardo che Francesco ha fatto toccare al movimento ecumenico post-conciliare, viene infatti ad aggiungersi il senso profondo di un itinerario che ha toccato praticamente tutte le dimensioni dell’umano e che ha avuto come filo conduttore proprio quell’amore rigenerante proclamato domenica nella liturgia della Parola. Il mea culpa davanti ai fratelli valdesi, da questo punto di vista, ne è un aspetto, la dimostrazione pratica di un fondamentale passaggio dell’omelia festiva, quella in cui Francesco aveva ricordato che per aprirsi al Dio-amore l’uomo deve riconoscere i propri limiti. Anche in campo ecumenico.Ma la visita di Torino è stata tanto altro. Un crocevia, uno snodo tra i grandi temi del pontificato, collocata anche cronologicamente a metà strada tra la pubblicazione dell’enciclica (giovedì scorso) e dell’Instrumentum laboris del Sinodo (oggi), con un occhio rivolto al Giubileo, come abbiamo già ricordato, e soprattutto con l’indicazione di un nuovo umanesimo in Cristo, tema che fa pensare al convegno decennale della Chiesa italiana, a Firenze in novembre, dove il Papa sarà presente e il suo magistero è punto di riferimento. Chi è, infatti, capace di «fare nuove tutte le cose», se non Gesù morto e risorto del quale la Sindone è testimone muta e "parlante" al tempo stesso? Ecco dunque che il senso del viaggio torinese di Francesco sta proprio nell’accento posto, sia pure in maniera diversa a seconda delle circostanze, sulla Risurrezione, cioè in definitiva sul principio "ecologico" di un’umanità finalmente libera dalle scorie del peccato e perciò capace di rigenerare l’ambiente, invocare la dignità dei lavoratori, difendere «ogni persona sofferente e ingiustamente perseguitata», prendersi cura degli ammalati e dei rifugiati, non scartare gli anziani, promuovere la bellezza della famiglia fondata sul matrimonio e chiamare i giovani all’amore vero, «casto», sempre oblativo, anche a costo di sfidare, come ha detto il Papa senza mezzi termini, l’impopolarità e l’accusa di moralismo. Sono non a caso i temi che hanno trovato spazio nel denso programma della visita. E Francesco li ha potuti declinare senza venire meno al motivo ispiratore della presenza in quella che è anche la terra delle sue radici familiari (ieri ha visto alcuni parenti), perché quel Volto, rimasto misteriosamente impresso sul lino, lo ha accompagnato in tutti gli incontri. Volto che attira a sé, ma nello stesso tempo spinge verso gli altri. Volto che in definitiva è l’icona dell’amore di Dio per gli uomini. Cioè del principio che «ricrea e fa nuove tutte le cose».
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