lunedì 28 ottobre 2013
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​La campagna di Matteo Renzi per ottenere il massimo consenso alla sua candidatura a segretario del Partito democratico deve tener conto dello stato d’animo degli elettori e soprattutto dei sostenitori più attivi di questo partito, che formeranno il corpo elettorale delle "primarie". La grande maggioranza di questa platea desidera essere rassicurata sul fatto che l’alleanza con il centrodestra che caratterizza l’attuale maggioranza "coatta" non sarà replicata nella prossima legislatura, ed è naturale che Renzi si assuma questo impegno nel modo più esplicito e plateale. Qualche eccesso verbale, però, sembra travalicare questa comprensibile volontà di competere vittoriosamente nelle prossime consultazioni, recuperando la vocazione maggioritaria del Partito democratico (che però né Walter Veltroni né Pierluigi Bersani sono riusciti a rendere concreta), e arriva ad assumere i toni di una sorta di messa in mora quasi immediata dell’esecutivo presieduto da Enrico Letta. Si deve tener conto di tutte le esigenze di una competizione, capire che Renzi non può lasciare ai suoi avversari l’arma della fin troppo facile contestazione alle singole misure adottate da un governo che deve tener conto dei pesanti vincoli che derivano dalla situazione dei conti pubblici. Però Renzi non è un candidato qualsiasi: tutti i sondaggi gli pronosticano una vittoria sonante nel suo partito, qualcuno prevede addirittura che raccoglierà un consenso che, in altri tempi, veniva chiamato "bulgaro". Questo dato gli conferisce una particolare responsabilità, quella di guardare al di là dell’appuntamento delle primarie, di ragionare con freddezza sulle condizioni necessarie per rendere praticabile il suo stesso programma.

C’è il rischio che una certa fretta che traspare dai suoi atteggiamenti faccia finire anche Renzi nella "palude" della sostanziale ingovernabilità di un sistema istituzionale arrugginito che ha reso impossibile realizzare riforme incisive anche ai diversi governi di centrodestra, centrosinistra e tecnici che si sono alternati al potere nell’ultimo ventennio. Il governo in carica, che nessuno considera quello desiderabile quando lo confronta con le proprie aspirazioni, risulta l’unico possibile se si tiene conto della configurazione numerica e politica delle aule parlamentari. Se a questa maggioranza non verrà dato il respiro necessario per realizzare, oltre alla manutenzione economica, un minimo di riforme istituzionali a cominciare da quella di un meccanismo elettorale coerente con un assetto istituzionale rimesso in equilibrio, le vocazioni maggioritarie – per quanto ben argomentate da una retorica accattivante e convincente – rischiano di restare petizioni di principio.Non si tratta solo di avere pazienza, di lasciar lavorare il governo senza disturbare troppo il manovratore. A un grande partito e a chi si prepara ad assumerne la guida spetta un ruolo più attivo e propositivo, al contempo gli è richiesto il realismo necessario per far diventare le idee e i programmi contributi costruttivi a riforme che possono e quindi debbono essere varate qui ed ora, anche se con una maggioranza complicata e densa di controversie. L’illusione che con una spallata che porti a una immediata verifica elettorale, che venga da destra o da sinistra, si possa evitare il ripresentarsi dei fattori di ingovernabilità è solo un’illusione pericolosa, che può evitare oggi la fatica della ricerca del compromesso per presentare domani un conto ancora più salato. C’è da sperare che Renzi – e non solo lui – si renda conto di queste esigenze concrete, che, una volta ottenuta la segreteria del Partito democratico, come tutto lascia prevedere, usi questa posizione per promuovere le riforme possibili già in questa legislatura, anche a rischio di deludere gli sfasciacarrozze che sono spesso i più rumorosi ma anche i meno convincenti partecipanti alle fasi pubbliche di discussione politica.

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