martedì 14 febbraio 2012
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Le primarie della coalizione di centrosinistra a Genova hanno segnato una pesante, e subito sconvolgente, sconfitta delle candidate proposte dal Partito democratico o propostesi in esso. E questo ha riportato alla memoria i casi analoghi che si erano verificati nelle consultazioni interne di Milano e di Cagliari, oltre che le vicende di Napoli, dove il vincitore delle primarie fu costretto a rinunciare a favore di un magistrato esterno, poi battuto nel voto da Luigi De Magistris dell’Italia dei valori. Il Partito democratico nelle grandi città mostra una debolezza evidente, anche nei casi in cui il "suo" candidato risulta vincitore alle elezioni, come nella Firenze di Matteo Renzi o nella Bari di Michele Emiliano, città nelle quali il rapporto tra il sindaco e il partito è sempre piuttosto teso. Ma se Atene piange, Sparta non ride. Nelle grandi città il Popolo della libertà è ridotto maluccio, in qualche caso ai minimi termini. Nonostante l’alleanza con la Lega Nord non dispone di alcun sindaco nelle città capoluogo di regione a Nord di Roma. Molte delle sconfitte del centrodestra, peraltro, si sono consumate prima della rottura tra Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini e ovviamente prima della 'separazione' dalla Lega Nord determinata dal diverso atteggiamento nei confronti del governo di Mario Monti. Insomma: i due grandi partiti nelle grandi città non sono tali, soffrono della concorrenza di formazioni minori e non riescono più ad assumere una rappresentanza popolare stabile. Non è facile trovare le ragioni di questo fenomeno, che si può far risalire alla particolare stratificazione delle società metropolitane e all’articolazione dei sistemi di potere, assai più complessa. Al di là delle interpretazioni sociologiche, pare però evidente il dato politico, che si esprime in una difficoltà a dare espressione compiuta alle esigenti aspettative di comunità attraversate dagli effetti più rilevanti dei processi di modernizzazione e dei problemi di convivenza che essi provocano. La lettura che qualcuno ha voluto dare dell’episodio genovese, attribuendo all’appoggio del Pd al governo la sconfitta delle sue candidate, appare parziale e poco convincente, appunto perché molti episodi analoghi si erano verificati prima della costituzione del nuovo governo, che peraltro ha anche segnato la sconfitta – o quantomeno un riconoscimento di inadeguatezza – dell’avversario tradizionale, il Pdl. Caso mai, sarebbe il caso di riflettere sul carattere del bipolarismo tradizionale della cosiddetta Seconda Repubblica che non è riuscito a polarizzare e stabilizzare i consensi dei settori politicamente più attivi delle grandi città, mentre ha sinora mantenuto – anche questo non va dimenticato – una consistente capacità di attrazione sull’elettorato generale. Non si tratta solo dell’inefficienza della "macchina" di partito, che pure non è un elemento trascurabile. Se, infatti, quella macchina non riesce a dare orientamento univoco neppure all’area più politicizzata delle metropoli, è perché non riesce a produrre risposte a temi complessi che non si possono riassumere in slogan generici e onnicomprensivi.Una politica che si esaurisce nel messaggio mediatico, necessariamente superficiale, rischia di risultare sghemba rispetto a una domanda di risposte di governo esigente e articolata. Da questo punto di vista una lettura piuttosto diffusa, quella che vede nella sconfitta delle proposte e delle candidature politiche legate ai grandi partiti una riprova del disinteresse verso la politica, dovrebbe essere capovolta. Chi partecipa a consultazioni primarie non è un esponente dell’antipolitica, al contrario chiede una politica più articolata e convincente. Invoca, in definitiva, più politica e meno propaganda. E questa è, appunto, una delle sfide che incalzano le grandi formazioni che sono state perno di quel bipolarismo aritmetico e rissoso ormai andato in crisi e che – come nessun altro – possono contribuire a dare base e prospettiva a un nuovo e sensato bipolarismo.
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