martedì 18 giugno 2013
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«Qui il nostro governo favorisce i molti invece dei pochi: e per questo viene chiamato democrazia. Qui ad Atene noi facciamo così».«Se cerco di immaginarmi il nuovo aspetto che il dispotismo potrà avere nel mondo, vedo una folla innumerevole di uomini eguali, intenti solo a procurarsi piaceri piccoli e volgari, con i quali soddisfare i loro desideri. Al di sopra di essi si eleva un potere immenso e tutelare, che solo si incarica di assicurare i loro beni e di vegliare sulla loro sorte».Tra il Discorso agli Ateniesi di Pericle del 461 a.C. riportato da Tucidide e le parole di Alexis de Tocqueville nel lungo saggio del 1835 La democrazia in America, si declinano in maniera impareggiabile i limiti e i rischi che la democrazia – e i sistemi politici che ad essa si ispirano – fatalmente reca con sé: Tucidide attraverso Pericle ne ravvisa il rischio del populismo strisciante che conduce alla figura del demagogo, Tocqueville scruta con acutezza e apprensione il pericolo della tirannide della maggioranza.In questi giorni la Turchia sta mostrando al mondo il volto di un regime che si proclama democratico e contemporaneamente si comporta con la stessa intolleranza verso le più elementari libertà individuali di una qualunque dittatura caraibica o africana del secolo scorso. Affogare dimostranti pacifici con cannoni ad acqua caricati con sostanze urticanti, arrestare centinaia di giovani perché adoperano twitter per scambiarsi messaggi, gettare in prigione i medici perché hanno prestato le prime cure ai feriti, ammanettare gli avvocati perché hanno osato protestare per la brutalità della polizia, chiudere i ponti sul Bosforo per impedire alla gente della sponda asiatica di avvicinarsi a piazza Taksim, dichiarare "terrorista" chiunque si faccia trovare nelle vicinanze di Gezi Park, inseguire donne e bambini in fuga fin nella hall di un albergo sparando candelotti lacrimogeni ad alzo zero, richiama alla memoria brutalità e abusi che le democrazie occidentali dovrebbero aver dimenticato.Tuttavia la Turchia di Recep Tayyip Erdogan – al pari dell’Egitto di Mohamed Morsi – è una Repubblica parlamentare ma non è ancora una vera democrazia. Democratico è il <+corsivo>metodo<+tondo> con cui Erdogan è arrivato al potere: un’elezione trionfale nel 2002 per il suo Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (Akp), seguita da un decennio di vigorosa crescita economica del Paese che ha visto triplicare il reddito pro capite turco e gli ha garantito la terza plebiscitaria conquista della maggioranza nel 2011. Quanto a democrazia realmente compiuta, però, siamo ancora molto lontani, e non c’è da stupirsene. Nella cultura politica di Erdogan – classe 1954 – il sistema democratico è una specie di ospite saltuario del Paese: introdotto attorno agli anni Cinquanta dopo il lungo regno riformatore (ma dispotico) di Kemal Atatürk e poi di Ismet Inonu, ha subito tre significative "interruzioni" nel 1960, nel 1971 e nel 1980 da parte della casta militare e un quarto tentativo di golpe nel 1997.Con grande fiuto politico Erdogan ha utilizzato lo stendardo della democrazia per combattere i nostalgici del laicismo autoritario kemalista e traghettare la Turchia in una prodigiosa età dell’oro con vaste ambizioni geopolitiche di un ritorno all’egemonia ottomana sulla regione; ma contemporaneamente è caduto appieno nell’errore (l’errore del demagogo, secondo Tucidide) di ritenere che vincere le elezioni autorizzi a ignorare l’opposizione considerando il dissenso un crimine («vandali, terroristi, delinquenti» sono i ricorrenti appellativi rivolti alle decine di migliaia di giovani che gremivano le piazze di Istanbul e Ankara, cui pure si riconoscono eccessi e sgangherate utopie). In ciò ha concorso non poco quella fratellanza che lo lega all’egiziano Morsi e ad altri nuovi leader delle primavere arabe, che si connota per il forte debito nei confronti del credo islamico e al tempo stesso – c’è un nesso causa-effetto, forse – per una conclamata carenza di cultura democratica. Ma disperare non serve. Siamo ancora agli albori dell’islam politico moderno e certi errori, certe storture possono ancora essere raddrizzate. In senso democratico, preferibilmente.
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