venerdì 9 marzo 2012
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La crisi dell’Europa sarà ancora lunga, perché lunga è stata la sua preparazio­ne, e il periodo di incubazione del virus del­la malattia. La fretta può essere molto peri­colosa. La situazione greca, nonostante l’im­portante sviluppo garantito ieri dall’ampia adesione dei creditori privati all’accordo sul debito, è tutt’altro che risolta. Mentre quel­la portoghese, può esplodere da un mo­mento all’altro, e la Spagna è in una situa­zione molto grave: chi può seriamente pen­sare che un Paese con un tasso di disoccu­pazione del 25% può dare priorità alla ri­duzione del debito e non alla crescita? E se qualcuno in Eurolandia oltre a pensarlo lo dice e lo raccomanda, tutto ciò è grave, e­conomicamente ed eticamente. L’Italia sta vivendo – sul piano internazio­nale, un po’ meno su quello politico in­terno – giorni di calma apparente e anche lo spread tra i nostri titoli del debito e quel­li tedeschi è tornato finalmente sotto «quota 300». Tuttavia recenti preoccupa­zioni espresse dal presidente Monti e dai ministri economici sono molto serie, e un po’ sottovalutate. C’è, poi, l’annosa – e or­mai davvero lancinante – questione delle imposte indirette. E, nonostante la pre­senza del governo di eminenti economi­­sti, su questo punto sembra si stia com­mettendo un errore di stima. Si fanno i calcoli sulle entrate che l’aumen­to dell’Iva (di 2 punti percentuali) dovreb­be generare, tenendo fermo, o quasi, l’am­montare dei consumi, e si sbaglia. Perché? Il popolo italiano, o lo cosiddetta “classe me­dia” (una “media” in caduta libera...), sta vi­vendo da anni una grave situazione di sof­ferenza economica e sociale. Per capirlo non servono i Centri studi: basterebbe che di tanto in tanto la nostra classe dirigente si recasse, in incognita, nei sempre più popo­lati mercati di piazza, in un’impresa indu­striale, in una cooperativa sociale, nei di­spensari e nelle mense parrocchiali o leg­gesse bene i dati sull’aumento di furti ali­mentari nei supermercati. Il Paese è sotto stress da tempo, e sta con di­gnità ma con enorme fatica assorbendo la diminuzione del potere di acquisto reale de­gli stipendi, e l’insostenibilmente alto (an­che a causa di imposte indirette) costo del­la benzina. A ciò si aggiungono i tagli agli en­ti locali, che continuano a impoverire le per­sone per un peggioramento dei servizi pub­blici accompagnato dall’aumento dei costi (a Milano il prezzo dei biglietti dei mezzi pubblici è aumentato del 50%!). Non finiremo mai di ricordare che i cittadi­ni impoveriscono non solo quando dimi­nuisce il reddito pro-capite, ma anche quan­do peggiora e si riduce la quantità e la qua­lità di beni pubblici e di beni comuni. In un tale scenario, l’aumento dell’Iva, e magari di altre imposte indirette può allora produrre effetti molto gravi – sarebbe utile che ci si spiegasse con un po’ di calma e di argomenti perché una imposizione indiretta, che di certo è meno equa, è almeno più efficiente o efficace di un’imposizione diretta. Innanzitutto, la gente consumerà di me­no, e quindi se oggi aumento del 2% l’Iva sui consumi, non debbo stimare le entra­te prendendo come base imponibile quel­la attuale, diciamo 1.000, ma una base ri­dotta, e di molto, forse in alcuni settori 700. Questo significa che la vera entrata attesa non è 20, ma 14. È ovvio che i bravi econo­misti che oggi sono al Governo sanno tut­to ciò, ma lo dicono poco, e, soprattutto, ap­punto, paiono sottostimare l’effetto di ri­duzione dei consumi, in particolare la ri­duzione indiretta o di medio termine. Per­ché quel - 6 (20 - 14) non ha solo un effet­to diretto e immediato nel reddito di chi oggi vende i prodotti (commercio). Tra bre­ve, quell’aumento dell’Iva avrà effetti re­cessivi, maggiori di quelli stimati, sull’in­tera economia: maggiore disoccupazione, minor consumo, e così via in quella 'trap­pola di povertà' di cui ogni tanto la storia, anche recente, ci narra. Probabilmente tutto ciò è la conferma che nessuna manovra economica può davvero funzionare con la logica dei due tempi: pri­ma i tagli e la contrazione dei consumi e dei redditi; poi le misure per la crescita.Occorre far subito tutto assieme, durante e non dopo, perché la seconda fase arriva sempre troppo tardi, e con costi troppo elevati. La tradizione economica italiana, con note culturali proprie e ben diverse da quella anglosassone, poggiava su un muro maestro: la rinuncia alle cosiddette «approssimazioni successive» ai problemi. Maffeo Pantaleoni, il “principe degli economisti italiani”, ma anche Luigi Einaudi o Giorgio Fuà, denunciarono ripetutamente il grave errore di rimandare dimensioni essenziali dei problemi a una seconda fase, poiché – dicevano – ciò che si perde nella prima fase non lo si recupera più, o quando arriva è troppo tardi e ha ormai perso molto della sua efficacia. Non si può, in un anno, rientrare da una situazione prodotta in decenni.All’Italia serve più tempo, un tempo che va anche contrattato nelle opportune sedi, un tempo che non può essere solo quello delle banche e della finanza, ma deve tornare a essere soprattutto quello della vita della gente. Ma se oggi la politica economica non abbina, mentre chiede i sacrifici, politiche serie di sostegno alle famiglie (a quando è rimandato il “fattore famiglia”?), al mondo dell’economia sociale (era proprio indispensabile chiudere l’Agenzia del Terzo Settore e si può non farsi carico delle difficoltà crescenti di questa straordinaria risorsa?), alle imprese piccole e artigiane in grande sofferenza, la cura risulterà con ogni probabilità insopportabile. E, quindi, inutile se non addirittura dannosa.
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