martedì 21 gennaio 2014
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Il piccolo Cocò è stato ucciso e poi bruciato probabilmente per eliminare un testimone. Testimone a 3 anni, dopo aver respirato a pochi mesi l’aria di una cella assieme alla mamma. E poi incredibilmente affidato al nonno pregiudicato e agli arresti domiciliari (qualcuno ne risponderà?). Quasi per un destino segnato già a quell’età perché figlio e nipote di criminali. Così il nonno lo ha portato con sé, e con la giovane compagna, all’appuntamento mortale, probabilmente pensando che la presenza del bambino lo avrebbe tutelato. Ma la ’ndrangheta, come le altre mafie, non rispetta nessuna vita. Dobbiamo ancora una volta ripeterlo e se necessario gridarlo. È un mito da sfatare quello della mafia, d’un tempo e di oggi, incapace di uccidere donne e bambini, e capace di rispetto. È un falso detto, ripetuto anche ieri in non pochi commenti. Invece è vero che questa piccola morte, come ha detto il vescovo di Cassano all’Jonio, monsignor Nunzio Galantino, segretario generale della Cei, «è una sconfitta di tutti noi».Così come quella di Giuseppe Di Matteo, sciolto nell’acido da "cosa nostra" dopo un lungo sequestro per vendicarsi del papà diventato collaboratore di giustizia, o come le giovani vittime delle faide calabresi, da Cittanuova a Oppido e Laureana. Avevano da 7 a 11 anni. Uccisi da piccoli per non averli come nemici da grandi. È purtroppo un classico della storia della ’ndrangheta. Sembra davvero un destino ineluttabile di troppi figli: o boss o ammazzato per evitare che diventi tale. Così crescono nell’odio e nella violenza. O ne sono vittime. Fin da piccoli. La Chiesa ha più volte tentato di spezzare questo destino, non solo con l’insegnamento ma anche accogliendo quei giovani che volevano davvero cambiare vita e futuro, offrendo nuovi valori e nuove prospettive, arrivando a portarli fisicamente in altre zone d’Italia. Lo ha fatto per la faida di Cittanuova o nella "guerra" di Reggio Calabria, quando su iniziativa di un grande sacerdote, don Italo Calabrò, vicario diocesano e tra i fondatori della Caritas, tanti ragazzi vennero portati in salvo.Ma salvarli non basta. Bisogna insistere con «parole e comportamenti chiari sulla legalità e la difesa della vita», è ancora la riflessone di monsignor Galantino. Già, parole e soprattutto comportamenti. La ’ndrangheta ha sempre ucciso donne e bambini, ha gettato uomini tra i maiali, ha obbligato ragazze a uccidersi con l’acido, ha sequestrato, ammazzato e non più restituito i corpi dei rapiti. Purtroppo non è una drammatica novità. Ed è la stessa ’ndrangheta con cui pezzi di politica e di economia stringono patti e fanno affari, in Calabria come al Nord.Ma anticorpi stanno crescendo. Non solo parole, bensì fatti concreti, nuovi comportamenti. Ieri i giovani della cooperativa Valle del Marro, che coltiva terreni confiscati alle cosche, hanno nuovamente affrontato in tribunale il boss Saro Mammoliti accompagnato dall’ultimo dei suoi figli, non più di 8 anni. Piccola e imbarazzante presenza, quasi a dover già imparare quale sarà la sua vita. No, la vita anche in questa terra può essere diversa. Tra i ragazzi della cooperativa ci sono anche parenti di mafiosi. Scelte diverse, difficili, spesso dolorose eppure limpide e convinte. Scelte di speranza e di cambiamento, non destini segnati. Ed è possibile, sempre. Anche nella Calabria sgomenta per il dramma del piccolo Cocò.
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