venerdì 28 dicembre 2012
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È solo l’ultimo anello di una spaventosa catena di violenza. Anzi, mentre scrivo, altri cristiani saranno già stati uccisi in qual­che parte del mondo, secondo le terribili sta­tistiche delle vittime dell’odio religioso. Ma mi colpisce il luogo in cui è stata uccisa due giorni fa una giovane cristiana pakistana: Quetta, la capitale del Beluchistan pakista­no. Città pakistana quasi sconosciuta vicino alla frontiera con l’Afghanistan, il cui nome in tivù viene spesso storpiato, è ascesa in questi anni a una triste notorietà perché o­spiterebbe da tempo Mullah Omar, il capo storico dei talebani. Una città ormai pres­soché preclusa agli occidentali. Eppure, fi­no a una dozzina d’anni fa era una delle città più vivibili del Pakistan. Ricordo i lunghi sog­giorni trascorsi laggiù lungo tutto un de­cennio, ospite di un convento delle suore di San Giuseppe. Il cancello di ferro era spes­so chiuso, ma solo per evitare che i bambi­ni della loro scuola corressero in strada: in realtà chiunque poteva entrare. Una vecchia suora accoglieva arcigna i ritardatari, uomi­ni giunti in ritardo per via del traffico, che si facevano piccoli mentre venivano redargui­ti per aver accompagnato tardi i loro figli. Dall’altra parte della via, oltre la cortina dei pini, la grande scuola media, ambita da tut­te le famiglie di Quetta. Poco lontano la chie­sa: isole di cristianità nel mare dell’islam che vivevano con tranquillità, senza protezioni, scorte o minacce. Ogni giorno una folla di pakistani urlava e strombazzava dinanzi le porte del conven­to: ma era solo il traffico anarchico dei pa­dri venuti a riprendersi i propri bimbi da quelle scuole così stimate. Ricordo un co­lonnello delle forze armate che voleva iscri­vere la figlia a ogni costo, anche se non c’e­ra più posto. Mise sulla scrivania della su­periora un’ingente somma di denaro e lei ri­fiutò. Lui riprese i soldi e disse: «Questo suo gesto è il motivo per cui mia figlia deve a tut­ti i costi studiare da voi». E quante erano le madri - musulmane, cristiane, cosa impor­ta - che discrete chiedevano e ricevevano un aiuto dai religiosi di Quetta? Quanti i padri che con vergogna dicevano di non poter pa­gare e, sospirando, si tracciava una riga sul­la loro retta mensile? De­cenni fa la prima supe­riora, essendo la scuola sull’orlo della bancarotta, andò in bicicletta verso la sontuosa dimora del Go­vernatore. «Ho chiesto aiuto a Dio ma, mentre a­spetto il Suo aiuto, non mi dispiacerebbe ricevere il suo, Governatore». E lui pagò, perché quelle scuo­le - disse - erano il vanto della città. Erano gli anni in cui si poteva stare di notte sul tetto del con­vento a conversare e guardare le stelle, così ni­tide e luccicanti. Oggi sa­remmo probabilmente scambiati per terroristi dai soldati di pattu­glia. Quel mondo lotta da anni, con crescente fa­tica, per rimanere fedele alla sua storia di comunità aperta: molti religiosi occidenta­li sono stati rimpatriati; blocchi di cemento e strade presidiate 'indicano' spesso in Paki­stan la presenza di chiese e scuole cristiane. Alla violenza criminale dei fanatici si asso­cia l’ambiguità meschina e pavida di quasi tutte le forze politiche e del governo di Isla­mabad. Un’intera comunità è ostaggio di queste violenze; il cemento che dovrebbe proteggerle sembra la metafora di una for­zata separazione da un Paese che sta per­correndo la via sbagliata dell’odio settario e dell’autodistruzione. Prigionieri per colpe non commesse, come Asia Bibi, che è di­ventata, suo malgrado, il simbolo dei dolo­ri della sua comunità. E come Younis Masih, in carcere da sette anni, anche lui con l’ac­cusa di blasfemia (ne parliamo a pagina 17, ndr). Camminando una sera per le vie di Quetta un giovane olandese che si occupava di u­no dei tanti campi profughi sorti lì vicino, mi chiese: «Non trovi che questo posto sia bellissimo?». Risposi di sì, ma oggi penso che no, non lo sia più, e non per colpa nostra.
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