mercoledì 11 giugno 2014
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Il timore negli ambienti della sicurezza irachena era che le milizie jihadiste dello "Stato islamico in Iraq e nel Levante" (Isis), costrette sulla difensiva in Siria dalle forze lealiste al presidente Assad, si concentrassero nuovamente in Iraq, approfittando del clima di instabilità militare e politica che le recenti elezioni politiche non hanno dissipato. Come spesso avviene in Medio Oriente, la realtà dei fatti ha superato le previsioni più fosche, con la caduta di Mosul, una delle città chiave del nord iracheno, finita nelle mani dei combattenti qaedisti.Un disastro che le autorità irachene non cercano di attenuare: non solo Isis controlla una nuova città dopo Falluja (da sempre il simbolo della resistenza arabo-sunnita al nuovo Iraq guidato dagli arabo-sciiti), ma la perdita di Mosul è ancora più grave, perché può innestare un fenomeno di frammentazione di tutto il centro-nord del Paese. E preoccupa anche il modo in cui questa sconfitta è maturata: le forze armate nazionali sono di fatto fuggite dopo alcuni giorni di lotta, messe in rotta da milizie armate in modo leggero, senza i carri armati, le autoblindo e l’artiglieria pesante di cui dispongono i militari di Baghdad. È un tracollo che sembra vanificare i lunghi, sanguinosi anni di formazione e di preparazione da parte delle forze statunitensi e che si aggiunge all’incapacità di fermare il terrorismo jihadista, che punta alle stragi indiscriminate nelle città, accanendosi contro la popolazione sciita e le minoranze non musulmane.Nel paranoico mondo politico di Baghdad, a dirla tutta, vi è anche chi sospetta che questa disfatta sul campo sia stata in qualche modo "incoraggiata" dallo stesso primo ministro, Nuri al-Maliki, che sta faticosamente cercando di formare il suo terzo governo dopo le elezioni politiche di aprile. Un leader detestato e contestato da molti (anche nello stesso campo sciita), con chiare tendenze autoritarie, e che ha chiesto la dichiarazione dello stato di emergenza per reagire a questa situazione eccezionale. Se vincerà le resistenze politiche, otterrà poteri eccezionali: quelli che gli permetterebbero di continuare a governare (è al potere dal 2005) e di piegare le tante resistenze al suo terzo mandato. Da qui il fiorire di scenari complottistici.La realtà, come spesso capita, sembra allo stesso tempo più banale e tragica: avendo fomentato il settarismo e cercato di umiliare la minoranza arabo-sunnita, al-Maliki raccoglie quanto ha seminato. Gli anni terribili seguiti all’invasione anglo-americana del 2003 l’hanno dimostrato chiaramente: le regioni centrali del Paese non possono essere tenute in sicurezza se non si coinvolgono – e in qualche modo ripagano – le tribù sunnite. Per riconquistare la città, non servono tanto i bombardamenti aerei già in atto, quanto piuttosto una politica capace di re-includere e ri-aggregare le diverse anime dell’Iraq.Ma Mosul è una città cruciale per due altri motivi: innanzitutto è contesa dal 2003 fra il governo regionale del Kurdistan iracheno (Krg) e Baghdad. I curdi la rivendicano come una loro città che dovrebbe essere ricongiunta al Krg assieme a Kirkuk. La sua caduta nelle mani di Isis sarà la cartina di tornasole del loro atteggiamento: i curdi devono ora scegliere se offrire il proprio sostegno al governo di Baghdad per cacciare gli jihadisti dalla città, o stare alla finestra, sfruttando un eventuale collasso dello Stato centrale. Vi è poi la presenza di una forte comunità cristiana, già duramente provata e falcidiata dal passato decennio di violenze. Isis si è spesso dimostrato brutale contro le comunità di fedeli della Chiesa: Baghdad dovrà dimostrare di saperle e volerle difendere: non solo riconquistare la città, ma renderla abitabile da parte di tutte le sue anime.Unica notizia positiva è il riaccendersi delle speranze per padre Paolo Dall’Oglio, che sarebbe ancora vivo, prigioniero proprio di Isis, e che speriamo di rivedere presto libero, al riparo delle violenze jihadiste, al pari degli abitanti di Mosul e di tutto l’Iraq.
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