martedì 24 settembre 2013
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I tempi di crisi profonda come quello che stiamo attraversando sono dapprima annunciati e poi marchiati da sofferenze umane e segni di cedimenti strutturali, che spingono ad andare oltre i fenomeni visibili per capire come venirne fuori. Oggi, i fatti ci stanno duramente insegnando che abbiamo a che fare con qualcosa di diverso rispetto a un semplice collasso dei parametri economico-finanziari dati per consolidati (la crescita e il benessere ininterrotti, la produzione e l’accumulo di beni e ricchezze come scopo dell’attività umana). Dentro il buio di un tunnel che non accenna a rischiarare (e che ci fa capire molto delle ingiustizie patite nei Sud del mondo) c’è dell’altro, e va guardato in faccia. Cominciando col prendere atto che la nostra è «un’epoca che non è di cambiamenti ma è un cambiamento d’epoca».A ricordare la profondità del bradisismo in corso, echeggiando l’analisi di papa Francesco, è il cardinale Bagnasco che nella prolusione con cui ha aperto ieri la sessione autunnale del Consiglio permanente Cei, e pochi giorni dopo l’analisi proposta alla Settimana sociale di Torino, ha messo a fuoco ancora una volta il nucleo culturale e antropologico della crisi – umana e sociale, prima che economica – e il livello al quale va impostata la risposta di tutti. Il logorarsi dei rapporti umani e della stessa coesione sociale sotto l’azione del «virus dell’individualismo» – torna a spiegare il presidente dei vescovi italiani – ha prodotto un «suolo umano» che «si sta impoverendo e si svuota di relazioni, legami, responsabilità divenendo così friabile e inconsistente». Le conseguenze sono tangibili sulla tenuta stessa dell’uomo, che «finisce per diventare "di sabbia"» secondo una figura su cui una saggistica recente ha indagato e che costituisce il nucleo di uno "sbandamento" del quale siamo allo stesso tempo testimoni e protagonisti. Il nodo è qui, dentro e attorno a noi, e non può più essere considerato come preoccupazione riservata alla Chiesa, che pure è decisa a farsi compagna dell’umanità in questo delicato passaggio.L’assieparsi di «pretese dei singoli» e l’esagerata enfasi pubblica posta su di esse ha, infatti, logorato il senso condiviso dell’essenzialità della famiglia e tende a trasformare lo Stato «in una sorta di nobile notaio dei desideri», allentando la convinzione di essere legati gli uni agli altri da un comune destino. Il vantaggio individuale come propagandato orizzonte di vita sta erodendo la «cultura dell’incontro e dei legami», cioè «il tessuto della vita» che rende «solida e affidabile la società intera». Il rischio che così la società imbocchi una strada del tutto sbagliata risulta chiaro quando si ha il coraggio di ammettere, con le parole del Papa domenica a Cagliari, che «in questo sistema senza etica al centro c’è un idolo, e il mondo è diventato idolatra di questo "dio-denaro». Un abbaglio le cui conseguenze bruciano sulla pelle di troppe vittime.Ma è proprio là dove colpisce il male che è disponibile il rimedio: l’individualismo è sovvertito e sconfitto dentro quella decisiva scuola di relazioni forti e affidabili che è la «famiglia naturale», non a caso definita da Bagnasco «cuore» e «motore» del Paese, «patrimonio umano», «bene insostituibile e incomparabile che deve essere custodito, culturalmente valorizzato e politicamente sostenuto». In Italia purtroppo non è così, ed è giunta l’ora di capirlo. Quello che il presidente della Cei chiede di compiere è un atto di realismo, perché «senza il microcosmo della famiglia è impossibile vivere il macrocosmo della società e del mondo».Anche per la solidità di questa certezza si fa incalzante per tutti il richiamo al dovere di fronteggiare le ferite sociali – prima tra tutte la mancanza di lavoro – con «una sempre più intensa e stabile concentrazione di energie, di collaborazioni, di sforzi congiunti». Si può e si deve, «insieme».

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