sabato 18 maggio 2013
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La notizia paradossalmente posi­tiva che è arrivata in questi gior­ni assieme a quella della settima fles­sione consecutiva del Pil del nostro Paese (e alla fatica del Governo Let­ta per scovare le risorse indispensa­bili per dare motore e ammortizza­tori alla 'ripresa' di imprese e fami­glie) è che la crisi non è più solo cir­coscritta all’Area Sud dell’euro ma colpisce in maniera significativa an­che l’Area Nord, con Germania, O­landa e Francia in arretramento o già in recessione rispetto all’anno precedente. Perché una notizia ne­gativa si converte, di fatto, nel suo contrario? Perché questo dato è de­cisivo e dovrebbe finalmente spin­gere la classe dirigente tedesca, An­gela Merkel in testa, a mettersi alle spalle l’incubo della Repubblica di Weimar per capire che stiamo vi­vendo una stagione completamen­te diversa. In quest’epoca di globalizzazione dei mercati, i Paesi emergenti conver­gono lentamente verso i Paesi ricchi mettendoli in crisi grazie a costi del lavoro fino a 20-30 volte più bassi.I Paesi ricchi competono cercando di puntare su fattori non delocalizza­bili (qualità, ricerca, beni e servizi le­gati al territorio), ma sono anche tentati di inseguire al ribasso il co­sto del lavoro dei Paesi emergenti. La progressiva perdita di potere d’ac­quisto dei lavoratori che ne conse­gue rende molto difficile soddisfare l’imperativo della crescita. Si può consumare di più guadagnando di meno solo facendo ricorso al debi­to, pubblico o privato. E nessuno sa meglio di noi italiani che la crescita del debito pubblico limita l’utilizzo delle politiche fiscali per cercare di sostenere la domanda interna.Pro­prio le caratteristiche della globaliz­zazione aprono, però, la strada a un possibile sostegno alla domanda consentendo l’utilizzo di politiche monetarie più espansive. Il rischio tradizionale di chi 'stampa più mo­neta' è quello di scatenare l’infla­zione, ma nella globalizzazione la concorrenza dei Paesi poveri ed e­mergenti che producono merci a bassissimo costo del lavoro, mentre crea la possibilità di una spirale al ri­basso di prezzi e salari, rende tale pericolo praticamente trascurabile. È per questo motivo che il Giappo­ne ha raddoppiato l’offerta di mo­neta con una politica aggressiva di acquisto di titoli pubblici e, negli Sta­ti Uniti, la Federal Reserve ha già da tempo adottato una politica mone­taria ultraespansiva dandosi l’obiet­tivo di ridurre la disoccupazione. Se le politiche monetarie ultrae­spansive non creano inflazione rea­le, minacciano però di creare infla­zione finanziaria, ovvero nuove 'bolle' speculative alimentate dal­l’abbondante liquidità in circolazio­ne. È qui è cruciale il compito della Banca Centrale, che può interveni­re per curare eventuali patologie, stampando la moneta necessaria per sostituire quella 'distrutta' da intermediari finanziari vittime del­l’eventuale crisi. L’ossessione del­l’inflazione e l’illusione che sia il ri­gorismo a essere di per sé espansi­vo ha finora impedito alla Ue di pro­cedere nella stessa direzione di Giap­pone e Usa. Nonostante questo, il presidente della Bce, Mario Dra­ghi, ha manovrato con grande a­bilità sfruttando i pochi margini di manovra disponibili per iniziative 'creative' che hanno aumentato la liquidità a disposizione delle banche. Ma non basta. Se vogliamo salvare l’euro è necessario cambiare subito. Con una politica monetaria più co­raggiosamente espansiva che faccia arrivare moneta nelle tasche dei cit­tadini e non solo alle banche. Con un’applicazione estensiva della golden rule (letteralmente 'regola d’oro') che promuova a livello europeo investimenti in infrastrutture e dia sostanza al finanziamento asimmetrico... del Fondo sociale europeo in proporzione all’entità del problema di disoccupazione dei diversi Paesi membri. Resto, inoltre, dell’avviso che dovremmo liberarci degli orpelli del Fiscal Compact e di ogni regola di equilibrio dei conti che includa voci non completamente controllabili e in balia degli umori dei mercati come quella della spesa per interessi. Sono altresì necessarie iniziative per superare l’anomalia di una politica monetaria centralizzata che produce costi del credito fortemente differenziati che penalizzano proprio le aree che avrebbero maggiormente bisogno di stimolare credito e investimenti. Su questi punti c’è ormai convergenza quasi unanime se persino Alesina e Giavazzi hanno scritto ieri, sul 'Corriere della Sera', che è opportuno chiedere una deroga alla soglia del 3% per ridurre le tasse e che è necessario far arrivare nuova liquidità che le banche devono prestare alle imprese. Da un punto di vista più generale è, infine, necessario mettere in moto meccanismi che accelerino la convergenza del costo del lavoro tra aree povere e aree ricche del pianeta valorizzando il contenuto sociale ed ambientale delle filiere produttive. Noi cittadini possiamo dare una grande mano da questo punto di vista se – ripeterlo è utile – impareremo a 'votare col portafoglio'. Scegliendo imprese e prodotti in cui il rispetto della persona e della giustizia è un dato certo e verificabile. Nella globalizzazione che ci rende tutti interdipendenti lavorare per migliorare il benessere degli 'ultimi' non è solo compito dei missionari, ma un’urgenza che ci coinvolge tutti se vogliamo difendere le nostre conquiste di welfare. Tra il convergere, noi, verso il modello del Rana Plaza di Dacca, in Bangladesh, (il palazzo-fabbrica dove sono morte più di 1.000 persone) e il convergere dei lavoratori diseredati dei Paesi poveri verso la faccia migliore e più equa del nostro modello di sviluppo si gioca il futuro. ​
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