martedì 24 aprile 2012
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​«Il calcio non è meglio né peggio, è come tutto il resto». Questa frase, pronunciata anni fa da Gianni Rivera, sintetizza perfettamente l’ultimo scempio compiuto ai danni del pallone italico: il boicottaggio – parzialmente riuscito – di Genoa-Siena da parte degli ultrà genoani. È accaduto a Genova, stadio Marassi, ma poteva succedere all’Olimpico di Roma e magari domani accadrà qui a Milano o al San Paolo di Napoli o in qualche altra periferia del nostro sgangherato sistema calcio. La minoranza rumorosa e violenta, ancora una volta, ha messo in fuorigioco la maggioranza silenziosa e civile. Le società di calcio purtroppo coincidono con la società reale, che deve fare i conti con un malcostume dilagante in cui si confondono sempre più i corrotti con i corruttori. Solo così si può spiegare come 100-200 potenziali “criminali” possano scavalcare indisturbati dalla loro Fossa e andare a occupare gli spazi dei “distinti”, i seggiolini riservati alle famiglie, e decidano di interrompere lo spettacolo. Perché non farlo?, avranno pensato. C’erano già riusciti anni fa i loro colleghi della capitale, i cugini romanisti e laziali che, per una volta uniti e compatti, avevano mandato a monte un derby con la colossale invenzione del «bambino morto all’Olimpico». A Genova non è servito neppure lavorare di fantasia, anzi sono riusciti a superarla, scambiando una gara di pallone per una sfida di “strip-poker”. Queste dieci-venti sporche dozzine, sapendo di essere in diretta tv, hanno intimato ai loro ex “eroi della domenica” di togliersi la gloriosa casacca del Genoa - il club più antico d’Italia - in quanto «indegni di indossarla». Che tristezza. È come se noi cittadini delusi dalla politica andassimo dinanzi a Montecitorio e chiedessimo a tutti i deputati di spogliarsi e di restare in mutande, perché non sono più degni di rappresentarci. Nel “Paese degli Schettino” si continua a fare la prima cosa che passa per la testa, consapevoli che si andrà a sbattere contro gli scogli. Perciò, togliendosi la maglia, capitan Rossi – e la ciurma genoana tutta – sa bene di rischiare di fare la figura del pavido che abbandona la nave che affonda, ma sa anche che ribellarsi vorrebbe dire piangere a lungo – come Mesto (nomen omen, data la circostanza) – e convivere con l’incubo che la masnada da stadio metta a rischio l’incolumità della propria famiglia. Perché dalle minacce verbali alle aggressioni fisiche, per “questa gente” che non ha mai nulla da perdere, il passaggio è ancora più breve di quelli che si vedono in campo. La terza via è stata quella del “dialogo”, come ha fatto Sculli, ascoltato e carezzato dalle belve inferocite, forse solo perché uomo d’onore, da rispettare (è il nipote di Giuseppe Morabito, boss della ’Ndrangheta). Fino a ieri, per questi avanzi di Curva, massimo rispetto meritava anche il presidente Enrico Preziosi, che adesso si vergogna di «questi delinquenti», ma il pulpito non regge: in un decennio il patron dei liguri è riuscito a far sparire il Saronno, far fallire il Como e con una valigetta contenente 250mila euro, nel tentativo di far vincere il Genoa (contro il Venezia), lo ha fatto condannare alla serie C. Quei «delinquenti» al Genoa, così come tutte le dirigenze del nostro calcio, li conoscono bene e i loro volti, incappucciati o scoperti, sono ben noti anche alle forze dell’ordine. Ma l’ordine e la sicurezza, nei nostri stadi, persino quelli costruiti a immagine e somiglianza dell’ideale modello inglese (come Marassi), non sono mai garantiti. Perché? Perché qui da noi «il calcio non è meglio né peggio, è come tutto il resto».
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