mercoledì 29 gennaio 2014
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«Inaccettabile, indecente». «Una provocazione». «Un ricatto. Anzi, uno sporco ricatto». Che «vuol far tornare indietro i lavoratori di 50 anni». Che «impone a noi condizioni da Polonia, se non cinesi»! Nei commenti a caldo alla proposta di riduzione dei salari avanzata dalla Electrolux, prima ancora di qualsiasi ragionamento economico, è scattato un giudizio morale. Come se quella idea di tagliare della metà gli stipendi degli operai non avesse solo rotto un tabù sindacale, ma aperto uno squarcio nella condizione sociale del Paese e nelle singole coscienze. Fino a che punto sono accettabili sacrifici salariali per mantenere aperta una fabbrica? Fino a che punto siamo disposti a ragionare in termini di costi comparati, di salari, di produttività e dove, invece, sta – per noi – la soglia dell’inaccettabilità? E che cosa, in definitiva, è per noi “inaccettabile”, cosa ci ripugna davvero in questa storia?Se si prova a pensare in maniera razionale, infatti, si trovano facilmente le motivazioni economiche che muovono la multinazionale svedese. Il costo del lavoro in Polonia è meno di un terzo del nostro, con una qualità pressoché simile. Chiunque, potendo, pressato dalla concorrenza internazionale andrebbe a produrre lì. E, d’altro canto, il livello di salari ipotizzato nella peggiore delle ipotesi (già in parte smentita) – un dimezzamento a 800 euro – non è poi così scandalosamente lontano dal normale stipendio di molti lavoratori: operai generici, apprendisti e impiegati di primo livello, fior di laureati con contratto a progetto e senza tutele.

 

Ma osiamo di più: proviamo a pensare a quanti, pur di lavorare, correrebbero oggi stesso a Porcia per montare lavatrici a quelle condizioni? Certo che è difficile, difficilissimo vivere con entrate così ridotte. Ma abbiamo mai aperto gli occhi sulla realtà intorno a noi per vedere quante persone si trovano in questa condizione, nella nostra società che va polarizzandosi sempre più tra alti e bassi redditi? Ormai si tratta di milioni di persone, di ogni età. E, allora, davvero siamo “indignati” perché non si vogliono più pagare le festività cadenti di domenica (cioè nemmeno lavorate)? Davvero pensiamo che il premio di produzione (aggiuntivo rispetto allo stipendio) o gli scatti d’anzianità siano voci che, una volta concesse in un contratto, restino per sempre intoccabili? In questo caso, infatti, non sono in discussione diritti o libertà, ma il livello di uno scambio economico, di una contrattazione che ha sempre un equilibrio variabile. Non esiste infatti un «giusto salario» assoluto, se non nella nostra personale percezione, così come non esiste un astratto «giusto prezzo», ma solo il punto d’incontro tra domanda e offerta di un bene.No, ciò che sentiamo veramente «inaccettabile» è anzitutto il fondato timore che questo sia solo il primo passo di un crollo generalizzato, che – prima o poi, ineluttabilmente – riguarderà molti di noi, e che trascinerà a valle, come dopo una piena, l’intera infrastruttura sociale costruita in Occidente nel secolo scorso. Ma più ancora, nel profondo, «inaccettabile» è per noi l’idea che il nostro lavoro sia un mero fattore tra tanti altri, sia così svalutabile: il 50% in meno da un giorno all’altro. Quel nostro essere orgogliosamente operai – o impiegati o artigiani, poco cambia – che una volta valeva ed era ricercato, perfino insostituibile in certi casi, oggi sembra diventare solo un peso eccessivo, un costo insopportabile, tutt’al più una mera variabile. E poiché il lavoro è parte così fondamentale nella costruzione della nostra identità, noi stessi in definitiva ci avvertiamo fungibili, sostituibili a volte con una delocalizzazione altrove, altre persino con un computer o un robot, in grado di fare a minor costo, e magari asetticamente meglio, la nostra attività.Questo sentiamo «inaccettabile», è questa concezione meramente funzionale del lavoro, sottesa al caso Electrolux come a molti altri, che insieme ci spaventa e ci ripugna. Il governo, la politica, possono agire sui fattori esterni alle aziende per limitare le (tante) diseconomie. Ma è solo riprogettando l’idea di lavoro come partecipazione a un’impresa comune, che si può pensare di superare le contraddizioni del nostro sistema e di un mercato globalizzato da cui non si torna indietro. Bisogna decidersi ad accettare, da un lato, la sfida della cogestione e, dall’altro, quella della partecipazione agli utili esattamente come alle difficoltà dell’azienda. È solo in una cornice di piena corresponsabilità che si può tentare di costruire un futuro non indecente. Che sia per l’uomo non per il puro e semplice mercato.

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