venerdì 25 ottobre 2013
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C’è qualcosa di indicibilmente protervo nel comportamento degli Stati Uniti di fronte al fragoroso afflosciarsi del castello di reticenze, mezze verità e grandi menzogne costruito maldestramente attorno a quello che ormai tutti chiamano "Datagate", lo scandalo delle intercettazioni di telefonate, mail e traffico internet che la Nsa (l’agenzia americana che si occupa dello spionaggio nelle telecomunicazioni) ha per lungo tempo condotto senza risparmio, fino a lambire il cellulare privato di Angela Merkel e i segreti dell’Eliseo, fino a toccare – con la complicità dei "cugini" britannici e all’insaputa dei nostri servizi di sicurezza – anche il sistema a fibre ottiche su cui transitano le conversazioni e i dati degli italiani.Le tardive giustificazioni della Casa Bianca e del Dipartimento di Stato hanno solo l’effetto di peggiorare – ove mai fosse possibile – la portata dello scandalo: si spiava e si intercettava, è vero – dicono – ma a scopi antiterroristici, e forse qualche attentato sul suolo europeo è stato sventato proprio grazie a questo fittissimo sistema di drenaggio di milioni di informazioni sensibili che i supercomputer della Nsa (gli unici al mondo in grado di processare criticamente miliardi di dati in una manciata di secondi) macinavano notte e giorno: instancabili quanto silenziosi angeli custodi dai nomi suggestivi e insieme misteriosi, "Prism" e "Tempora", così si chiamano i due sistemi paralleli di intercettazioni di Washington e Londra. Solo che a quanto pare non di sola lotta al terrorismo si nutriva lo spionaggio anglo-americano, ma anche di succose informazioni industriali, finanziarie e politiche sui Paesi amici. Come dire, una sofisticatissima e profittevole concorrenza sleale.«Non è tollerabile che vi siano zone d’ombra», ha ammonito il presidente del Consiglio Enrico Letta. «Spiare – ha commentato la cancelliera Angela Merkel – non è cosa accettabile fra alleati. Fra alleati occorre fiducia». Una fiducia che in queste ore sembra scivolare sotto la suola delle scarpe con un effetto domino che trova d’accordo pressocché tutte le nazioni amiche e alleate dell’America: raramente l’imbarazzo americano e il relativo risentimento europeo (ma diciamo pure mondiale, visto che la Nsa spiava alacremente anche il famigerato "cortile di casa", frugando fra i dati sensibili anche in Messico, Brasile e Argentina) avevano raggiunto simili vertici.Chi ha seguito la poco onorevole vicenda del "Datagate" (l’espressione richiama l’altrettanto imbarazzante e perniciosa vicenda del Watergate, un caso di effrazione e intercettazione di dati in una sede del Partito democratico americano che dopo due anni di reticenze e bugie costò la presidenza a Richard Nixon) ricorderà come lo scandalo sia venuto alla luce in seguito alle rivelazioni – qualcuno dice la «diserzione» – di Edward Snowden, ex tecnico informatico della Cia e collaboratore della Nsa, che in tandem con Glenn Greenwald, giornalista del britannico Guardian, ha scoperchiato il calderone del più grande scandalo atlantico degli ultimi vent’anni, inseguito invano dalla giustizia americana ed ora esule (o ospite) a Mosca, dove probabilmente resterà a lungo e offrirà – a pagamento – il suo talento informatico alle società di protezione dei dati personali russe: competenza ed esperienza, il mitico know how, non gli manca di certo.E qui è inevitabile, quasi impossibile non domandarsi il perché di questo scandalo a orologeria, di questa ben sincronizzata macchina delle rivelazioni che ha raggiunto il proprio acme suffragando il sospetto che perfino l’utenza telefonica personale della donna più potente del mondo – Angela Merkel – che guida la nazione più ricca e influente d’Europa – la Germania – fosse sotto controllo. Cui prodest scelus is fecit, faceva dire Seneca a Medea: «Il delitto l’ha commesso colui al quale esso giova». Ecco: in mezzo a tanti sospetti e all’inevitabile opacità di una vicenda i cui contorni non saranno forse mai chiariti del tutto, un primo risultato il "Datagate" lo ha raggiunto: quello di raffreddare se non di ritardare il percorso che porterà alla nascita di quell’area di libero scambio fra Usai e Ue evocata da Obama nel suo discorso sullo Stato dell’Unione del febbraio scorso. «L’accordo del secolo», come lo definisce l’Ocse, che porterebbe cospicui benefici in termini di occupazione e di crescita economica per entrambe le sponde dell’Atlantico e in buona misura anche per l’Italia. Un’intesa che a molti, da Mosca a Pechino, passando per le economie asiatiche e perché no, anche per i nuovi protagonisti dell’economia mondiale, come Messico, Brasile, Indonesia e Sudafrica, suona sgradita. Forse gli stessi – ma questa è malizia pura – che stanno pagando idealmente l’affitto della casa moscovita a Snowden.
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