martedì 29 gennaio 2013
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​Oni giorno che passa il presidente Morsi sembra perdersi un poco di più all’interno del proprio labirinto politico. E il fatto che egli stesso abbia in larga parte contribuito a costruirlo, non rende meno cupi gli scenari che l’Egitto si trova dinanzi. Dopo i silenzi e l’inazione dei primi momenti – mentre Ismailiya e Port Said bruciavano e le forze di sicurezza usavano la mano pesante contro i rivoltosi – il presidente cerca di riprendere ora l’iniziativa, alternando i toni minacciosi contro chi mette a rischio la sicurezza del Paese agli inviti al dialogo con l’opposizione, riunitasi nel Fronte di salvezza nazionale. Un invito già seccamente respinto da el-Baradei a nome di tutti i partiti che vi si riconoscono, mentre si preannunciano nuove manifestazioni di protesta. Notizie che risaltano su tutti i media internazionali, aggravando la crisi del turismo – un settore decisivo per la claudicante economica egiziana – e rallentando ulteriormente gli investimenti stranieri. Una spirale senza fine in cui la crisi dell’economia si riversa sulla politica e viceversa. Insomma, il più importante Paese del mondo arabo si ritrova a arrancare lungo una china scivolosa, resa più pericolosa dai tanti errori compiuti da Morsi. Dalla data della sua elezione, il presidente si è distinto solo per due preoccupazioni: la corsa sfrenata a occupare ogni spazio politico e amministrativo, piazzando uomini fedeli ai movimenti islamisti, e il tentativo di imporre all’Egitto una visione dogmatica e manichea della propria identità religiosa. Del resto, se vi è una caratteristica comune a tutte le agende politiche islamiste è proprio il loro solipsismo: sono incapaci di guardare al di fuori del loro discorso, tutto imperniato su un’interpretazione restrittiva dell’islam. Economia, scadenze finanziarie internazionali, rispetto e rappresentanza della pluralità identitaria sono tutti temi che possono aspettare. Imprescindibile per Morsi era al contrario imporre una Costituzione – faticosamente approvata da una minoranza di egiziani – che umilia i non-musulmani e i liberali, anche a costo di bruciare tutti i ponti con l’opposizione politica, spingendola anzi a superare le rivalità personali che la dividevano. E così ora il presidente si ritrova stretto fra una piazza sempre più insoddisfatta e impaziente, un’opposizione liberale finalmente determinata e la concorrenza dei salafiti che erodono la popolarità dei Fratelli Musulmani con la loro propaganda settaria e fanatica, ma che fa breccia nei settori più colpiti dalla crisi economica. E si ritrova anche a doversi appoggiarsi ai militari, gli unici in grado di evitare che il Paese sprofondi nelle violenze. In molti immaginano già un compromesso fra il nuovo potere islamista e l’apparato burocratico-militare sopravvissuto al cambio di regime. In fondo, alla vecchia élite interessa salvaguardare i propri privilegi e l’autonomia di quello stato nello Stato rappresentato dalle Forze armate. Ma un compromesso come questo non risolverebbe la crisi di legittimità del nuovo presidente, né fornirebbe risposte alla devastante crisi economica e di immagine internazionale. L’unica strada che potrebbe favorire la ripresa dell’Egitto passa per l’apertura alle opposizioni, lo stop a un’islamizzazione delle strutture di potere calata dall’alto e la revisione della pessima nuova Costituzione. Una strada che difficilmente il presidente accetterà di percorrere volontariamente. Molti egiziani sottolineano come Morsi, prima di essere proiettato da una serie di veti incrociati alla guida della Repubblica, non fosse l’uomo di punta dei Fratelli Musulmani. Piuttosto un "burocrate" di questo movimento. Questa sua mediocrità è stata fin qui ampiamente dimostrata. L’Egitto, liberatosi due anni fa da un faraone corrotto, avrebbe certo meritato di meglio. Ma – è altrettanto sicuro – avrebbe potuto scegliere con maggior accortezza l’uomo al quale affidare il proprio destino.
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