domenica 7 ottobre 2012
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La secolarizzazione non è più quella di una volta. Quando incominciò, apparve come un impulso di emancipazione del­l’umano che è comune a tutti, e sta a cuore a tutti. In essa, nono­stante tutto, erano le potenzia­lità dell’umanesimo contenute nel seme cristiano che, in molti modi, venivano alla luce. E for­nivano – persino tacitamente – il fondamento e il corredo etico delle virtù – umane, non solo ci­viche – che sono necessarie: il ri­spetto della persona, il senso del dovere, la disposizione della so­lidarietà, il pudore dell’intimità, la dignità del lavoro, l’amore del sapere, la fedeltà degli affetti, la cura della generazione, la re­sponsabilità del ruolo. Il programma del Sinodo mon­diale dei Vescovi che sta per in­cominciare non usa mezzi ter­mini, né troppi giri di parole. La secolarizzazione del legame so­ciale, intenzionata a perseguire l’obiettivo della giusta laicità della cosa pubblica, ha trascu­rato di alimentare questi fonda­menti etici dell’umanesimo co­mune, lasciando sempre più spazio all’ideale dell’individuo che si fa da sé, senza dovere nul­la a nessuno. Ne doveva scatu­rire, quasi spontaneamente, u­na nuova società di liberi e u­guali. Non è andata proprio co­sì. Ora siamo tra i cocci di un u­manesimo fai–da–te. E non ne usciremo facilmente: in ogni ca­so, non senza la determinazio­ne e il sacrificio che ci sono man­cati. Anzi, di più. La «morte di Dio», che era sembrata l’ultima profezia della ragione adulta, or­mai capace di garantirsi da sé l’alto profilo di una vita buona e di un umanesimo compiuto, «ha ceduto il posto a una sterile mentalità edonistica e consu­mistica, che spinge verso modi molto superficiali di affrontare la vita e le responsabilità». Il cristianesimo deve essere ca­pace di far diventare l’adorazio­ne di Dio l’atto decisivo per la ri­conciliazione collettiva della ra­gione con l’umano. I due si sono persi di vista: il desiderio ha in­termittenze deliranti, che in ca­po a qualche generazione pro­mettono di diventare sub–cultu­ra di tribalità predatorie. «La Chiesa sente come un suo dove­re riuscire a immaginare nuovi strumenti e nuove parole per rendere udibile e comprensibile anche nei nuovi deserti del mon­do la parola della fede che ci ha generato alla vita, quella vera, in Dio». La fede deve ritrovare l’a­more di prima, e diventare capa­ce di sostenere di nuovo la gene­razione e le generazioni, fino al­l’altezza di ciò che fa grande l’a­nimo di un popolo. La Chiesa del Sinodo si rivolge in primo luogo ai credenti, chiedendo anzitutto a loro un serio esame di coscien­za e un profondo cambiamento di mentalità. Neppure la fede va da sé. Noi stessi abbiamo cerca­to di aggiustarci un umanesimo che si adattava ai desideri e ai so­gni, perdendo lo slancio e il rea­lismo di una fede che riapre a Dio tempi e spazi della vita reale. La fede in Gesù Cristo non pianta fiorellini non–ti–scordar–di–me sul parabrezza dell’auto, non se­mina molliche come Pollicino. La fede ha radici semplici e pos­senti: sposta i massi che ostrui­scono la strada verso Dio, colma le voragini per gli incauti segua­ci del Pifferaio magico. Il Sinodo dei Vescovi è deciso a imprimere una svolta alla vitalità della fede: a cominciare dei po­poli che fecero l’impresa (e ora, quasi, se ne vergognano). La sfi­da, nondimeno, è affrontata per tutti. “Dio” non è un vocabolo del gergo ecclesiastico: è parola– chiave di un senso radicalmente comune, per uomini e donne al­l’altezza delle domande dei figli che nascono. Anche nel deserto.
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