sabato 23 maggio 2015
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«Fratelli, qui non grida un revanscismo. I nostri interessi sono gli interessi di Dio, che ci dice di amarlo sopra ogni cosa e di amare gli altri come noi stessi». È la voce limpida del beato Romero questa, che oggi come quarant’anni fa arriva dritta a quanti l’ascoltano «perché comprendano come la luce della fede ci guida per strade molto diverse dalle ideologie, per seminare quello che la Chiesa offre: una motivazione d’amore».

Oggi, con la beatificazione di Romero, la Chiesa celebra i suoi martiri, quelli di ieri e quelli di oggi, Uomini e donne che hanno testimoniato con il dono del sangue la vittoria dell’amore di Cristo sul male del mondo. E ci dice con la Lumen gentium e con papa Francesco che «la persecuzione è sempre stata e sempre sarà la strada di coloro che seguono il Signore» perché «come Cristo ha compiuto la redenzione attraverso la povertà e le persecuzioni, così pure la Chiesa è chiamata a prendere la stessa via per comunicare agli uomini il messaggio e i frutti della salvezza». È questa la strada che ha percorso fino in fondo il vescovo Romero. Si è detto che la sua beatificazione ha fatto cadere un muro. In realtà più d’uno. Quello del mito che lo aveva rinchiuso nella gabbia degli scontri ideologici della sua epoca e quello del timore della strumentalizzazione politica della sua memoria che ha fatto dilatare i tempi del riconoscimento del suo martirio in odio alla fede. Oggi, alla luce limpida dei fatti, Romero non ha più bisogno di essere riscattato dalle incomprensioni e dalle false accuse dei suoi confratelli nell’episcopato, dalla diffamazione e dalle calunnie che lo hanno preparato al martirio sull’altare. I muri, cadendo, lo hanno mostrato per ciò che è stato ed è tuttora: un pastore responsabile e fedele agli insegnamenti della Tradizione, del magistero petrino e del Concilio Vaticano II, che con spirito di fortezza predica e mette in pratica le verità e le virtù evangeliche, denuncia la violenza, la miseria e l’ingiustizia sociale, persegue la giustizia, la riconciliazione e la pace sociale, sente l’urgenza di annunciare la Buona notizia e proclamare ogni giorno la Parola di Dio ai poveri secondo la predilezione di Cristo, e lo serve nel suo popolo. La Positio super martyrio documenta dettagliatamente le prove dell’odio viscerale nutrito nei suoi confronti, per un’azione motivata solo dall’amore evangelico per la giustizia e la difesa dei poveri, e al quale il beato risponde, come Cristo, con il perdono. E documenta la persecuzione subìta in vita e post mortem fuori e dentro la stessa Chiesa a motivo della sua opzione evangelica. Se la Chiesa ha canonizzato molti martiri dei regimi totalitari del comunismo e del nazismo, la vicenda martiriale di Romero mostra ora le violente persecuzioni della Chiesa dell’America Latina negli anni Settanta-Ottanta. Romero, come altri sacerdoti, è stato ucciso da un sistema oligarchico formato da persone che si professavano cattoliche e che vedevano in lui un nemico, un ostacolo all’«ordine sociale occidentale», a quella che già Pio XI, nella Quadragesimo anno, chiama «dittatura economica». Come Romero, altri vescovi, sacerdoti, religiosi e laici, che hanno conformato la loro fisionomia sul modello e sulle esigenze del Vangelo e del Concilio, sotto la falsa accusa di "fare politica" e di "comunismo" sono stati messi a morte da questi sistemi dittatoriali. E però non si riconoscono i santi per chiudere i conti con il passato, o per concedere rivincite e risarcimenti alla memoria di uomini e donne maltrattati che hanno sofferto per la fede. Se la Chiesa oggi riconosce come martire Romero e lo eleva agli onori degli altari è perché Romero, fino in fondo testimone sine glossa del Vangelo, parla ancora nella e alla "communio sanctorum". E ha molto da dire ai cristiani e agli uomini e alle donne del tempo presente. E a quelli di domani.

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